La bellezza di essere se stessi senza fingersi altri, senza paura di sfigurare, di dire ciò che potrebbe essere meglio per sé e per gli altri, di amare le piccole cose del quotidiano naturali o artificiali senza timore della patacca di ‘antiquati’, di lasciare scorrere una penna non servile senza timore di altri… bellezza di vivere senza fare male agli altri e senza che te ne facciano, di reagire con giusta indignazione all’imbecillità dilagante, ad azioni indegne e immorali… bellezza di vivere liberi rispettando gli altri ed essendo rispettati, di non essere succubi di convenzioni false e bugiarde, ma cum grano salis…
Quanti decaloghi può fare generare la ricerca della bellezza profonda, ma quanti hanno il coraggio di viverli? Ed è poi così facile riuscire a capire, capirsi e formularli?
Quante bellezze ha perso il protagonista della pièce – in prima nazionale scritta, diretta e interpretata da Corrado Accordino (Monza, 1970; direttore artistico del Teatro Libero di Milano e della Compagnia La Danza Immobile), uomo di teatro di tempra, personalità e valida professionalità, impegnato da qualche anno in un percorso di ricerca sui temi che ruotano intorno all’Arte in senso lato di cui questa pièce sulla Bellezza rappresenta la terza produzione – borghese benestante con una famiglia ‘normale’ non di persone, ma di monadi senza finestre, ciascuna chiusa nel proprio mondo senza ponti verso gli altri?
Di chi è la colpa se la figlia è in pratica un’estroflessione dello smartphone e il figlio si esprime a monosillabi a metà strada tra muggito e grugnito? Non sono forse figli di una generazione di teledipendenti o playstationdipendenti? Non si ipotizzare che sia mancata l’educazione all’uso della parola che ha perso i suoi profondi significati e non traduce più un pensiero o una riflessione reale: non è forse vero che oggi parlare è considerato inutile, una vera perdita di tempo se non produce lavoro e sempre che non sottragga tempo alle attività remunerative e al divertimento?
Questa odierna straordinaria capacità di gestire il tempo e la parola trova la sua massima espressione in Facebook dove ondeggiano abbozzi di rapporti e fantasmi di conoscenze e amicizie che garantiscono una perfetta gestione del tempo: come meravigliarsi dunque se il nostro protagonista arriva a conseguenze del tutto singolari nell’uso della parola: liberatorie per lui e angoscianti per gli altri.
Una pièce ironica e sottile che fa riflettere su come si butti via tanta bellezza della parola condivisa, come si scavi una fossa ai rapporti personali che in verità non sono così facili per cui risulta apparentemente più semplice ridurli ad abbozzi meno impegnativi, più agevoli e rapidi da gestire e come, invece, siamo sensibili e complicati tanto che banali eventi dell’infanzia lasciano segni profondi nella nostra psiche, orme che si sarebbero potute cancellare attraverso la bellezza delle parole scambiate anche con i bambini: ma ahimè, dove trovare il tempo… non ne abbiamo all’infinito, ma almeno gestiamolo cum grano salis…