Il linguaggio è surreale ma il contesto è realistico e abbastanza diffuso presso le rive dei nostri fiumi, in prossimità dei centri abitati.
Lungo un argine trovano rifugio tre diseredati in una baracca di lamiere, col disadorno giaciglio poggiato su sconnesse cassette di legno e oggetti di scarto ammucchiati in ordine sparso, nella scenografia di Margherita Palli.
“Tutto cominciò con un dormiente e un insonne che fissò il muro”. Pol è cieco, perennemente vinto dal sonno, giace sul letto impossibilitato a camminare. La sua identità è dubbia, dai lobi gli pendono vistosi orecchini, sembra assumere a tratti identità femminile. Pot è insonne, assiste Pol con costante dedizione, si muove incessantemente intorno al letto per accudire il suo compagno, che a volte definisce “moglie”. Ai piedi del miserrimo talamo è appoggiato trasversalmente a terra un materasso sul quale giace immobile Supino che si scherma dietro vistosi occhiali da sole.
Sono tre glorie del teatro contemporaneo, nei panni di reietti mummificati nei loro soliloqui autoreferenziali.
Gianrico Tedeschi, alla soglia dei 96 anni, è l’instancabile Pol, animato da una frenesia motoria che lo fa muovere da una parte all’altra e girare intorno ai due giacigli accostati per soddisfare tutti i bisogni di Pot, un inedito Ugo Pagliai immobilizzato, querulo e assillante verso il suo compagno di sventura (e forse anche di vita) con un marcato accento toscano, improvvisamente assalito dal torpore che lo fa cadere in catalessi.
Nel perenne girovagare Pol viene agganciato più volte da Supino, immobile sotto le coperte e gli occhialoni da sole, che lo tira a sé per bisbigliargli qualcosa.
Di cosa parlano Pol e Pot? della vita, delle fantasie e delle visioni, dei sogni e degli incubi, dei bisogni corporali e di cosa è successo un attimo prima del Big Bang, della fine auspicata e cercata; “ho sognato gli alberi stanotte, alberi che camminano e hanno ancora le foglie. Il sole sta per inghiottirci, la terra sembra una crostata”.
A un tratto Supino si erge con tutta l’imponenza fisica di Maurizio Donadoni e comincia a declamare un monologo in un linguaggio beckettiano-romanesco, dichiarandosi appartenente alla stirpe degli Immortali, srotolando e riavvolgendo nastri registrati (citazione da L’ultimo nastro di Krapp di Beckett) con messaggi destinati ai posteri dagli Immortali che egli non ha voluto seguire sull’Olimpo per non “finire prima di finire”, e proclama che a questi esseri eterni non è dato mai conoscere la risposta alla domanda “perché esistiamo”.
Entra un individuo con l’espressione stralunata di Franco Branciaroli, indossa un lungo pastrano da cui pendono grossi corni rossi e una lunga falce in mano, è la Morte, che parla il napoletano aristocratico di Totò, annunciando scoordinati eventi.
Colpito con una mazza da Supino svegliato dal suo arrivo, stramazza sul letto accanto a Pol e perde i sensi.
Sembra la fine, forse no, i monologhi circolari si inseguono, se perfino la Morte, Caronte traghettatore, si addormenta, dove sarà la soluzione?
Entra un giovane operaio, stanno bonificando l’area e bisogna smantellare la baracca.
Branciaroli, regista oltre che autore, ha attinto a molte fonti, ispirandosi a “Finale di partita” di Samuel Beckett, parodiandone il titolo e ambientando la vicenda in un contesto più contingente ma ugualmente privo di valori, debolmente illuminato dalla fiammella della speranza: “Ci si difende dall’angoscia da sempre… affidarsi a Dio, venirne uccisi per salvarsi, addirittura ucciderlo per questo: finora. È morto, adesso, per chi lo percepisce davvero. Non morto per noi, non più; scomparso. Però l’angoscia resta e cresce: vieppiù. La realtà è senza ideale, la natura senza luce. L’opera d’arte deve essere capace di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo che è il trovarsi privi di Dio”.
Umorismo nero e poetico, assenza di fede ma fiducia nella scienza e nell’arte, pervadono questa burla lieve che esplora attraverso il nonsense i tortuosi intrecci dei cuori e dell’esistenza.
Quattro grandi attori della scena italiana, che insieme superano i tre secoli, in una prova di bravura, surreale comicità e irresistibile dinamismo del quasi centenario Tedeschi.
Lunga vita al teatro!