Quando le notizie sui giornali chiedono a gran voce un ripasso della storia recente, quando le distanze, dello spazio e del tempo, si accorciano vertiginosamente, è necessario rinfrescare la memoria con tutti i mezzi che si hanno a disposizione. Il teatro è forse quello più efficace. Niente come la storia personale di un individuo può avvicinare alla storia collettiva di un popolo. Ne La bastarda di Istanbul lo spettatore può decidere a quale personaggio accostarsi: qualunque sia la sua scelta, si troverà a dover arrendersi di fronte all’inconsistenza di un odio trascinatosi per anni.
Quattro sorelle vivono con la madre ad Istanbul, ognuna con la sua personalità, ognuna con le sue fissazioni, ognuna col proprio modo di essere donna in Turchia, oggi: tra la voglia di Occidente e l’attaccamento alle tradizioni, con la consapevolezza che qualcuno avrà sempre motivo di criticarle. Con loro c’è anche Mustafa (Riccardo Naldini), unico fratello e maschio di casa, condannato, come tutti gli uomini della famiglia Kazanci, a morire all’età di 41 anni. Avvicinandosi la data fatidica, Mustafa si trasferisce negli Stati Uniti, dove sposa Rose (Monica Bauco, che veste anche i panni della sorella Feride), moglie separata di un uomo nato in Armenia e diventato padre in Kentucky. Così Armanoush (Elisa Vitiello), la figlia armeno-americana amante dei libri, decide di farsi ospitare dalla famiglia turca del patrigno per capire come sono andate davvero le cose tra i Turchi e gli Armeni.
Armanoush a Istanbul conosce Asya (Diletta Oculisti), la bastarda, figlia della più giovane e impertinente delle sorelle, Zeliha (Valentina Chico). Quella che all’inizio sembra un’amicizia impossibile tra due mondi ostili e lontani diventa la speranza di pace, di un futuro che non dimentica, anzi, ricordando, cresce più solido.
L’ashure è il dolce di Noè – spiega zia Banu (Serra Yilmaz) – cucinato sull’Arca quando l’alluvione non permetteva più ad ognuno di prepararsi un pasto completo, cosicché si misero insieme gli alimenti che a ciascuno erano rimasti, in un unico grande calderone. Come davanti a un piatto orientale mai assaggiato, a volte basta avvicinarsi e guardare le cose con più attenzione per scoprire che molti ingredienti ci sono familiari, sono soltanto usati in maniera differente.
La scelta coraggiosa di Angelo Savelli di portare sulla scena il libro ancora più audace di Elif Şafak, scrittrice turca che racconta, da una prospettiva nuova, il genocidio armeno – e lo fa in inglese – manifesta la volontà di un Centro di Produzione Teatrale di unire il piacere nobile della risata con la straordinaria capacità didattica dell’arte recitativa. L’intreccio complicato della storia è sciolto da zia Banu, che sa prevedere il futuro, forse perché conosce bene le persone e la loro natura, insieme benigna e maligna. Con la disinvoltura che le è propria, Serra Yilmaz pronuncia tutte le parole necessarie, e soltanto quelle. Il suo personaggio, che mescola magia e saggezza fino a renderle indistinguibili, come anche le descrizioni e le narrazioni in terza persona dei protagonisti, sono accorgimenti ben pensati e ben celati dal regista per risolvere l’inevitabile difficoltà della resa scenica di un testo scritto. Più d’impatto – talvolta fin troppo alienanti – i video proiettati sui tre schermi, due dei quali mobili, che hanno, però, lo stesso effetto vigoroso, teso a far risaltare le contraddizioni di un paese al confine tra due continenti, che in molti avevano già sperimentato ne L’ultimo harem. Due storie diverse, entrambe intrappolate nel myse en abyme della Storia, quella con la s maiuscola, entrambe uscite dallo stesso vecchio baule che abita sul palco di Rifredi da dodici anni, ognuna capace di unire le culture nella loro difformità.
Ne La bastarda di Istanbul l’Occidente fa capolino nei panni di una grossa mongolfiera arancione con la scritta Kodak, “una polaroid di una violenza carnale”, testimone della brutalità a cui troppo spesso l’essere umano si abbassa, sia esso nato in Turchia, in Armenia o in Italia.