A oltre 26 anni dal debutto il 31 luglio del 1989 a Tivoli, nella cornice suggestiva e particolarmente idonea di Villa Adriana, questo testo di Marguerite Yourcenar continua a sprigionare il suo perenne fascino.
Albertazzi giganteggia nel ruolo di un personaggio che allora gli è stato ritagliato addosso dal regista Maurizio Scaparro, ed è diventato per lui un alter ego, verso il quale sembra instaurarsi un transfert identificativo.
Figura centrale della storia romana, Adriano riversa tutta l’esperienza della sua vita di condottiero e politico nella lettera che idealmente indirizza al giovane nipote adottivo Marco Aurelio, per iniziarlo all’esercizio del potere.
“Animula vagula blandula …Comincio a scorgere il profilo della mia morte …”. L’animo dell’imperatore è fragile, il corpo è minato dalla grave malattia, il cuore si apre alle confessioni, la gloria è fugace ma la nostalgia è persistente: “è facile fare naufragio e, se tutto è vano, lo è anche la virtù”.
Sulla scena vuota, l’imperatore stanco seduto su una panca, avvolto nella bianca tunica, spinge lo sguardo lontano rievocando la giovinezza, l’amore per poesia musica e filosofia, l’iniziazione al culto dei misteri eleusini, le battaglie, la protezione della moglie di Traiano, Plotina, che lo aiuta a diventarne il successore e sceglie per lui la moglie Sabina, un matrimonio privo di slanci emotivi. E la grande tenerezza per l’incontro d’amore con Antinoo, il giovinetto che gli trafigge il cuore e gli procura un lancinante dolore con la sua morte.
Il potente romanzo storico della Yourcenar, realistico sotto il profilo storico-biografico, enuncia molteplici sublimi riflessioni sulla vita, l’amore, il potere, la cultura, in un flusso ininterrotto di consapevolezza e affermazioni che sgorgano dalla mente e dal cuore di quell’uomo, apparentemente dimesso, che racconta, con sporadiche interruzioni di personaggi che appaiono per fugaci intermezzi con musiche e canti di Evelina Meghnagi accompagnati dalle percussioni di Armando Sciommeri.
L’uomo sa che la vita sta per fuggire via, affiora l’orgoglio della sua formazione improntata alla cultura greca e con un tenace e sottile filo di voce afferma che tutto ciò che è possibile fare è già stato fatto da un greco, “in greco ho pensato e in greco ho vissuto, anche se il mio epitaffio sarà scritto in latino”.
Vibranti e poderose, le parole del romanzo si trasformano in un’eredità culturale e spirituale: “non tutti i nostri libri periranno; … altre cupole sorgeranno dalle nostre cupole … e se i Barbari s’impadroniranno mai dell’impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci”. Scritto dall’autrice nel 1951, è stato portato in scena da Scaparro e Albertazzi per oltre mille repliche in Italia e all’estero, come lo stesso attore ricorda ringraziando il pubblico che lo applaude dopo la chiusura del sipario. Nell’’89 aveva la stessa età che l’imperatore ha nel romanzo, a distanza di quasi un trentennio ne incarna lo spirito, indomito e instancabile. “Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti” sono le ultime parole di Adriano; “Quando qualcosa dovrà accadere, che accada qui sopra” sono le parole di commiato dell’attore indicando il palcoscenico.
La regia di Scaparro guida questo diario poetico con una essenzialità ridotta ai minimi termini, scarna e impalpabile, facendo divenire negli anni uno spettacolo di culto questa autobiografia immaginaria dell’imperatore che regnò dal 117 al 138 d.C., di cui Flaubert così spiegò il fascino immortale: “quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo solo”.