Toni Servillo ci accompagna alla scoperta di Napoli attraverso le parole di poeti e scrittori che si son fatti testimoni della città nel passato e nel presente. Ne nasce un omaggio appassionato alla cultura partenopea e ad una città dai mille volti e dalle mille contraddizioni.
È una sorta di ‘Commedia dantesca al contrario’ quella che Toni Servillo porta in scena al Teatro del Giglio di Lucca. Solo sul palcoscenico, affiancato da una sedia e da un leggio, l’attore napoletano si fa infatti traghettatore di anime e, attraverso i testi di poeti e scrittori partenopei, ci accompagna in una toccante e vivace discesa dal paradiso all’inferno. «Il filo rosso che attraversa e unisce la serata – spiega lo stesso Servillo – è il rapporto speciale, caratteristico di tantissima letteratura napoletana, con la morte e l’aldilà, il commercio intenso e frequente con le anime dei defunti, i santi del paradiso e Dio stesso».
L’attore partenopeo dà voce e corpo alle parole di Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ a Dio), Eduardo De Filippo (De Pretore Vincenzo e Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e mandarine e E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature e Primitivamente) e Totò (‘A livella). Omaggia i grandi che hanno fatto la storia del teatro e della letteratura napoletana, ma non per questo dimentica di dar spazio a scrittori e drammaturghi contemporanei come Mimmo Borrelli (A sciaveca e Napule), Maurizio De Giovanni (’O vecchio sott’o ponte), Enzo Moscato (Litoranea) e Giuseppe Montesano (Sogno napoletano).
Sebbene appartengano ad epoche diverse, infatti, ciascuno di loro ha contribuito, col suo tratto specifico, a ritrarre una città divisa tra l’estrema vitalità e lo smarrimento più profondo. Una città passionale, creativa e ironica, come il mariuolo De Pretore, ma anche misera e malinconica, come si evince, invece, dalla morte bianca di Fravacature e dalla tragica perdita di un figlio di ‘O vecchio sott’o ponte.
In questa commistione di temi e sentimenti, la lingua rappresenta il segno più antico, forgiato dal tempo e dalle contaminazioni. Lo stesso Servillo, a tal proposito, rivela di aver scelto questi testi «perché ne emerge una lingua viva nel tempo, materna ed esperienziale, che fa diventare le battute espressione, gesto, corpo». Assistiamo, quindi, ad un’interpretazione appassionata che da vita ad una scenografia verbale. Con estrema maestria Servillo si cala nei personaggi, coglie ciò che ne muove le storie, la poesia tra le righe, e fa sì che le sue parole si materializzino. Parole aspre, feroci, che hanno corpo, ma che d’un tratto si fanno dolci, musicali, sussurrate.
È una dichiarazione d’amore, la sua, davanti alla quale non si può non restare affascinanti. Servillo è un interprete generoso, intelligente ed ironico. Sul finale si cimenta addirittura nel canto, con una divertente versione di ‘A Casciaforte di Alfonso Mangione.
Questo viaggio appassionato e appassionante è un percorso di scoperta. Storie, personaggi, una città ed il suo spirito molteplice. Servillo le rende omaggio dall’inizio alla fine, ma è nei versi di Cóse sta léngua sperduta di Michele Sovente che sintetizza il suo spettacolo, attraverso la dichiarazione d’amore più profonda per quel legame viscerale tra Napoli e la sua lingua.
Cuce questa lingua smarrita, racconta questa lingua stordita
schegge e cocci di esistenze che più dei sogni al buio sono restate.
Chiama questa lingua selvaggia un turbinio, una festa di nomi voci colori.
Questa lingua così discreta, questa lingua così nuda.