Autrice: Rayhana
Attrici: Anna Coppola, Matilde Facheris, Mariangela Granelli, Annagaia Marchioro, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Marcela Serli, Chiara Stoppa
Regia: Serena Sinigaglia
Scene: Maria Spazzi
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Questo testo della scrittrice franco-algerina Rahyana, andato in scena per la prima volta a Parigi nel 2009, denuncia in maniera esplicita la drammatica condizione in cui versano le donne nella società islamica. L’autrice, anche interprete di uno dei nove personaggi femminili presenti nella pièce ambientata nell’Algeria dei nostri giorni, nel gennaio del 2010 ha subito una serie di aggressioni sia verbali che fisiche da parte di due uomini, in seguito alle quali ella ha assunto lo pseudonimo di Rahyana ma non si è scoraggiata nel portare avanti la sua battaglia artistico-civile. Le vicende in cui sono coinvolte le nove donne protagoniste sono quasi tutte emblematiche della sottomissione patita dalle donne sin dalla più tenera età nell’ambiente familiare e nel corso della loro vita matrimoniale ad opera degli uomini che esercitano una forma di imperioso e impietoso predominio basato sulla forza, l’arbitrio, la consuetudine associata ad una restrittiva e repressiva interpretazione del dogma religioso. Il plot principale che costituisce il prologo, la cornice e l’esito finale della pièce è dato dalla fuga di Myriam, la giovane ragazza incinta e abbandonata dal suo giovane compagno, dalla furia omicida e vendicatrice d’”onore” del fratello. Nell’hammam (uno stabilimento termale in cui i musulmani si purificano per la preghiera), dove Myriam ha trovato ricovero convergono i vari personaggi distinti dall’autrice per tipologia e cultura d’appartenenza: dalla massaggiatrice-capo Fatima, logorata da una schiavitù domestica e sessuale (questa la sua vita matrimoniale) che ha prodotto in lei un viscerale odio per il genere maschile e la sua aiutante Samia, trentenne ingenua e sognatrice alla ricerca del grande amore e del marito; all’insegnante Latifa che in gioventù ha vissuto una storia d’amore e all’amore ci crede ancora, cui fa da contraltare la casalinga Louisa, sposata forzatamente a 10 anni ad un uomo che non ha mai amato e ha poi tradito col cognato; dalla studentessa Nadia che è riuscita ad ottenere il divorzio, a cui si contrappongono Aicha, la suocera tradizionalista e Zaya, giovane integralista; per finire con Madame Mouni, immigrata in Francia e alla ricerca di una moglie modello (illibata, morigerata ecc,) per il figlio. Mentre Myriam rimane nascosta, grazie a Fatima, nella dispensa dell’hammam (collocata fuori scena), si sviluppano così le altre sottotrame (la borghese Nadia compete politicamente con l’integralista Zaya; Samia, grazie all’intermediazione di Fatima, Latifa e Louisa, cerca di concludere con Madame Mouni l’agognato matrimonio combinato) che sono in realtà delle digressioni-variazioni sull’unico tema fondamentale riproposto con virulenza nella parte conclusiva della pièce quando gli uomini cingono d’assedio l’hammam, e cioé quello della tragica lotta della donna per sopravvivere e rivendicare i propri diritti di dignità e libertà da una condizione di inaudita sopraffazione, come è testimoniato dalla finale esplosione di violenza degli uomini dopo che hanno sfondato la porta dell’hammam.
Il punto di forza della regia di Serena Sinigaglia (Premio Hystrio 2015) sta nel senso di coralità che ha saputo ricreare scenicamente e che riscatta lo strisciante didascalismo del testo salvaguardandone la tensione emotiva di fondo. La qualità del relazionarsi reciproco delle donne-attrici, del loro convivere in una zona affrancata dalle costrizioni confessandosi, ascoltandosi, confortandosi o ingannandosi a fin di bene, scontrandosi e riappacificandosi, determina un’atmosfera progressivamente coinvolgente, un universo caloroso in cui lo spettatore trova naturale accoglienza e che ha la sua apoteosi nel climax finale in cui le donne, pur sapendo di dover soccombere alla violenza maschile, trovano un cruciale momento di unione e indipendenza (seppur circoscritto all’hammam) quando decidono, superando conflitti, divisioni e preclusioni personali di aiutare Myriam a partorire e di salvare la sua stessa vita travestendosi da donne incinte per poterla mimetizzare tra loro (unica a dissociarsi nel finale è Zaya che conduce la neonata all’esterno invocando la punizione per la “peccatrice”).
Ad alimentare e supportare tale coralità è l’ambiente scenico fisso ideato da Maria Spazzi, che rappresenta l’hammam: una vasca d’acqua centrale da cui esala vapore acqueo e circondata da bassi sedili coperti da lenzuoli bianchi di cui si cingono anche le donne per le abluzioni, i massaggi ecc. Un luogo-oasi di morbidezza e ristoro, dalle tinte chiare e sfumate, che favorisce l’emergere dell’autenticità, delle ferite intime come nel caso della toccante descrizione da parte di Louisa delle violenze subite nella prima notte di nozze o del racconto che fa Zaya della tragica morte del marito vittima della violenza repressiva della polizia; ma anche della trasgressione con cui le donne parlano delle loro esperienze sessuali o dell’ironia con cui sdrammatizzano le loro difficoltà, deridono i loro “carnefici” o spensieratamente si canzonano a vicenda.
Ciascuna attrice ha restituito un vivido ritratto del proprio personaggio: Marcela Serli ha dimostrato un’inesauribile vitalità nell’ostinata protesta esistenziale di Fatima (che all’età di 50 anni è ancora costretta a nascondersi per fumare) e nella sua volontà di salvaguardare il senso della comune e differente identità femminile; Arianna Scommegna ha dato al personaggio di Samia la necessaria freschezza e fanciullezza; Matilde Facheris ha reso al meglio la complessa vicenda di “gioie e dolori” di Louisa, donna comune alle prese con un destino schiacciante; Maria Pilar Pérez Aspa è stata misurata e naturale nel tratteggiare Latifa, donna “fortunata” ma mai apparsa privilegiata rispetto alle altre; Annagaia Marchioro ha impresso nel personaggio di Nadia il vigore e la decisione di chi osa ribellarsi e conquista la propria emancipazione; Anna Coppola ha sbozzato con incisività il suo personaggio di madre tradizionalista, burbera ma di buon cuore; Chiara Stoppa ha mitigato il rigore integralista di Zaya conferendo al personaggio la mitezza e la maturità di una persona segnata da drammi familiari; Mariangela Granelli ha reso Madame Mouni una vivace e simpatica macchietta. Ma soprattutto il gruppo di attrici è stato un travolgente ensemble che è riuscito a conferire al microcosmo dell’hammam femminile una valenza universale rappresentativa del macrocosmo femminile bistrattato il cui urlo di liberazione ha contagiato il pubblico del Verdi che ha applaudito a lungo le attrici intonando anche insieme a loro il “canto di gioia e di guerra” che a più riprese le donne avevano proposto durante lo spettacolo per rimarcare la loro complicità, solidarietà e forza collettiva.