di Carlo Goldoni
adattamento Alfredo Arias e Geppy Gleijeses
regia Alfredo Arias
con Geppy Gleijeses (Lelio), Marianella Bargilli (Rosaura), Lorenzo Gleijeses (Arlecchino/Brighella/Portalettere), Mauro Gioia (Ottavio)
con la partecipazione di Andrea Giordana (Pantalone), e con Valeria Contadino (Beatrice/Cleonice), Luchino Giordana (Florindo), Luciano D’Amico (Dottor Balanzoni)
scene e costumi Chloe Obolenski
musiche originali Mauro Gioia
luci Luigi Ascione
produzione Gitiesse Artisti Riuniti
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Alfredo Arias ne “Il Bugiardo” di Carlo Goldoni innesca una macchina metateatrale mettendo in scena una vecchia compagnia napoletana – la Compagnia Cannavacciuolo – alle prese con la stessa commedia dell’autore veneziano, e i cui singoli componenti s’inchinano al proscenio all’inizio dello spettacolo per ricevere un applauso (reale) ma che nella finzione è una routinaria pratica inclusa in una prova generale che – apprendiamo solo dopo – stanno eseguendo dello spettacolo; è questa una prospettiva quasi straniante che ci consente di dare un senso preciso ad alcuni aspetti dell’allestimento.
Il primo pensiero va alla scenografia; tipico lo sfondo lagunare del canale veneziano, ai lati del palcoscenico, a quinte rimosse, due malandate strutture lignee a rappresentare la casa del dottor Balanzoni e la locanda, unite da una fila di “lampadine” (ci ricorda vagamente del “Circo equestre Sgueglia” dello stesso Arias). C’è un che di stantio e precario che va imputato – seguendo il gioco registico – al logorio in cui versa il repertorio (e l’economia) della Compagnia napoletana che da decenni recita ”Il Bugiardo” di Carlo Goldoni del cui ruolo principale è presumibilmente detentore ad oltranza il capocomico, seppur non più giovane. E difatti nella versione che stiamo vedendo è l’anziano Cannavacciuolo (alias Jeppy Gleijeses) ad interpretare la parte di Lelio De’ Bisognosi, il burlone dalle “spiritose invenzioni”. Da questo congegno metateatrale nasce una sorta di riflessione critica che viene apprestata tra il primo ed il secondo atto quando la recita è interrotta da un confronto che gli attori della Compagnia hanno fra di loro. È interessante come proprio il repertorio dei Cannavacciuolo nonché la precarietà della scenografia consumata ed obsoleta vengono ad essere oggetto di discussione, dalla quale affiora il sentimento d’inadeguatezza del loro teatro nei confronti del presente e delle relative questioni. La loro arte è come un rifugio dalle pareti scrostate, i loro volti protetti dalle maschere goldoniane che né lo scorrere del tempo e né la consunzione delle scene ha ancora fermato.
Alfredo Arias trova indirettamente una maniera di presentarci il suo “Bugiardo” con una sorta di cortocircuito con il quale mostrare Goldoni e le sue storie come un repertorio tradizionale e stantio, verrebbe da pensare quasi che abbia fatto arretrare il riformatore della commedia al genere di quella dell’arte, attribuendo nella finzione stessa il compito ad una vecchia compagnia di re-interpretare il testo mescolando ai suoi caratteri originali, alcuni tratti espressivi afferenti alla tradizione partenopea.
Lelio che è invero vissuto per lungo tempo a Napoli, qui non ha la parlata toscana ma si avvale del dialetto napoletano, con le sue bugie sembra costruirsi una ludica identità simile al guappo. I lazzi con l’Arlecchino (caratterizzato con minuzia estrema da Lorenzo Gleijeses, ugualmente bravo anche nel ruolo di Brighella) si trasformano così in botte e risposte (trafugate dall’originale partitura) rimaneggiate nel vernacolo campano con un certo gusto moderno di comicità. Così, anche la controparte femminile, Rosaura (Marianella Bargilli) e Beatrice (Valeria Contadino) reinterpretano la vezzosa civetteria della donna goldoniana con una più contemporanea sfumatura.
D’altro canto, non pare un caso che Arias decida di lasciare Pantalone (Andrea Giordana), Brighella, Arlecchino ed il dottor Balanzoni (Luciano D’Amico), i personaggi riformati, originarie maschere dell’arte, nella loro filologica caratterizzazione e con la propria parlata dialettale, insieme a quella tipizzata degli amanti Florindo (Luchino Giordana) e Ottavio (Mauro Gioia) per poter giocare sul senso di repertorio e tradizione ed esibire di Goldoni la sua insita teatralità. Ed è proprio questo aspetto che riusciamo a cogliere; il regista argentino non sbaglia entrate e uscite dei personaggi per le quali egli sfrutta uscite laterali ed un dislivello praticabile sullo sfondo lagunare, e le scene si susseguono con ritmo brioso. Si dilatano i lazzi fra Lelio ed Arlecchino, s’inframezzano nei dialoghi evocazioni parodiche degli altri protagonisti che riappaiono buffamente con dei palloncini e si reinventa, verso la fine, il personaggio romanesco di Cleonice la cui presenza nel testo originale è solo citata; cosicché la scena “stantia” della Compagnia partenopea vi si riempie di numeri marionettistici e di toni carnascialeschi.
L’impressione in generale de “Il Bugiardo” di Alfredo Arias è che il carattere metateatrale sia utilizzato come giustificazione per poter traghettare all’interno della comicità goldoniana, un registro di stampo partenopeo che vuol strizzar forse l’occhio al contesto di debutto al quale il lavoro è stato destinato, vale a dire al Napoli Teatro Festival. Oppure, viene da pensare, che sia un’edizione asservita alle peculiarità dell’attore principale, esattamente come viene fatto dalla presunta Compagnia Cannavacciuolo. Un gioco, dunque, speculare attraverso il quale porre più ludicamente lo spettatore dinanzi ad un teatro, che riconoscendosi nei suoi corrosi arredi scenici si dichiara distante dall’oggi, e non riesce dal suo interno a rinvenire un moto innovativo. Goldoni, insomma, resta alla tradizione, più tristemente al repertorio, come un nostalgico rito, ascrivibile a teatranti la cui compagnia tanto ricorda quella del Circo Sgueglia di Viviani. Un approccio, dunque, quello del regista argentino al teatro italiano che – nonostante gli attori siano davvero mirabili – riflette un’idea di superficie in quanto né toglie né aggiunge a quella frequente percezione alla quale un “classico”, quando è frutto delle maggiori produzioni e dei più grandi teatri, ne è soggetto, né, abusandone, la pone in discussione.