“Il sogno di un’Italia”, di Andrea Scanzi e Giulio Casale, ci accompagna in un’analisi curiosa e beffarda della storia d’Italia. È un viaggio intelligente e accurato nell’“Italietta” peggiore, quella degli “inciuci” e degli “Intrallazzi”, quella per cui l’opinione estera ci additerà sempre, tristemente, come “Italiani, mafiosi, pizza e bunga-bunga”.
È un’idea attuale di teatro-canzone quella nella quale si alternano Scanzi e Casale, ironizzando, strappando qualche sorriso amaro, emozionando e indignando.
È un’analisi accurata del palcoscenico politico italiano, dagli anni ’70 alle epoche delle stragi di stato, dalla trattativa stato-mafia all’ascesa politica delle figure di spicco del ventennio a noi più vicino.
Trascinanti monologhi di Scanzi intervallati dalla voce di Casale che vocalizza sofferte canzoni del cantautorato italiano più dignitoso.
“La musica interpreta il presente e anticipa il futuro: la musica degli anni ’80 era musica felice, spensierata, il suo obiettivo era calmare il pubblico e silenziare le coscienze” – spiega Scanzi – ma di contro spiccava un filone indignato, ringhiante, rumoroso; la musica dei Diaframma, dei Litfiba, dei CCCP; la risposta dell’ Italia vigile alle smussate imposizioni sanremesi (e a conti fatti questa analisi si distacca forse molto dalla situazione attuale?).
Il sipario si apre su una video-intervista a Monicelli che ammonisce i giovani a diffidare dal concetto di “speranza”, inculcato a mò di vaccino dalle autorità: “La speranza è una trappola inventata dai padroni”, proferisce il regista, già anziano e consumato dal tempo.
Si passa in analisi il buon cinema italiano, citando Nichetti, Verdone, Benigni; ci si sofferma a lungo sulla figura di Troisi, su “Non ci resta che piangere”, e sul suo immenso “Il postino”.
In chiusura dell’excursus sulla decisione lucida dell’attore di consegnarsi ad una fine coerente, riecheggia la voce calda e vibrante di un Hallelujah di Jeff Buckley. Le corde vocali di Giulio Casale si divertono a solleticare l’emotività del pubblico, e trappano qualche lacrima sorpresa.
Passando allo sport si cita Ayrton Senna e la sua tragica morte, per approdare al mondo della comicità scomoda e spigolosa dei fratelli Guzzanti, dell’esule Luttazzi e di Paolo Rossi.
Scanzi è magistrale nel guidare un Teatro Puccini gremito di auditori attenti e accorati lungo i percorsi di un Paese che si stava sgretolando sotto gli occhi di chi c’era, e guida i più giovani nei sentieri che raramente i canoni della scuola pubblica percorrono: i giudici del pool antimafia, Caponneto, Falcone, Borsellino, Berlinguer, Craxi, Andreotti, il terrorismo rosso e quello nero.
C’è una flebile trama che collega figure rilevanti come Troisi, Borsellino e Berlinguer: “IL BIVIO”. La questione è rimanere saldi ai propri principi, o salvarsi abbandonando la rotta percorsa per tutta la vita?
Sottoporsi all’intervento di cuore salvifico, o proseguire nelle riprese del suo ultimo film? Continuare le sue indagini, o ritirarsi, dopo la Strage di Capaci? Perseverare nel suo ultimo comizio, o abbandonarsi ai soccorsi?
Queste domande restano senza risposta, aprono un’aspettativa nell’animo del pubblico, che viene riempito dalle note della chitarra di Casale: “Povera patria” di Battiato.
Si passa in analisi allora la seconda Repubblica, passando in esame le figure che l’hanno caratterizzata e le loro gesta: Berlusconi, Bossi, giungendo fino all’attualità con il fiorentinissimo Renzi. In risposta ai personaggi citati da Scanzi, Casale propone “Viva l’Italia” di De Gregori.
I toni si fanno ancora più cupi e opprimenti, specie per il pubblico più giovane, quando si affronta lo spinoso tema della “Macelleria Messicana d’Italia”, “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, per Amnesty International: i fatti del G8 di Genova, le incursioni notturne alla scuola Diaz e l’assassinio di Carlo Giuliani.
Casale si supera nella sua interpretazione de “Il cancro” di Giorgio Gaber.
Questa volta anziché attenuare la tensione provocata dal suo collega, riesce a stridere le unghie sulle superfici lisce dei timpani del pubblico rapito dalle atmosfere irte create da Scalzi.
Sullo sfondo appare un pensiero di Carmelo Bene: “Anche Nietzsche era impazzito, ma cazzo se l’era guadagnato”.