Quella di Medea è una storia senza tempo, più di quanto non lo siano altri drammi dell’Antichità. Prima di tutto perché è profondamente umana, viscerale, spietata. Euripide chiama fuori gli dei, nominati soltanto nelle disperate invocazioni dei mortali, e descrive l’ingiustizia degli uomini. Non c’è contrasto tra la legge divina e quella dell’uomo, né l’atroce dilemma tra la rassegnata accettazione e la fatidica ribellione, soltanto gelosia, rabbia, invidia, passione. Nomi comuni, primitivi, femminili. Medea (Federica Di Martino) aiuta Giasone (Daniele Pecci) nell’impresa mitica di ottenere il vello d’oro, si trasferisce a Corinto, dove è considerata una barbara, abbandona suo padre, commette efferati delitti, sempre in nome del suo amore per lui. Ma Giasone a un tratto rovina l’idillio, progettando di sposarsi con la figlia di Creonte, re di Corinto, per assicurare a se stesso il trono e ai suoi figli una vita agiata nella reggia. Mentre l’uomo, apatico calcolatore, progetta il suo futuro a tavolino, la donna è accecata dalla furia e prepara la sua vendetta con un’inaudita freddezza. Avvelenerà la promessa sposa di Giasone con delle vesti pregiate e una corona dorata e ucciderà i suoi stessi figli, vittime inermi di un rapporto spropositato, per far pagare il fio delle sue azioni al padre. La furia le offusca la ragione ma la rende anche capace di fingere un rimorso e ordire un sapiente inganno; è fuori di senno, però lucida nella propria follia. Euripide, con la Medea, crea un’apologia del sentimento eccessivo, dell’annientamento di se stessi a cui questo inevitabilmente porta, e persuade il pubblico, in un catartico riconoscimento della fragilità umana. Certo lo spettatore non approva la rabbia ferina di Medea, non la perdona, ma, consapevole che non sta a lui giudicare, la comprende e la commisera. Giasone è un fantoccio, incapace di capire e di reagire; alza la voce, grida, ma il suo timbro è più debole di quello acuto e vero di Medea, e la sua intonazione meno fluida. È lui, greco, a parlare barbaro.
Nelle scenografie e nei costumi, moderni e asettici, si legge l’eternità di un pezzo del teatro che indaga nell’animo umano e pone questioni irrisolte, come il pregiudizio verso lo straniero – il barbaro – e verso la donna, pericolosa quando si innamora, preda indifesa dei sentimenti, e quando conosce, tanto che aver studiato significa essere capaci di sortilegi e malefici, rappresentare una minaccia più che una risorsa.
Accostarsi a un testo simile, senza scalfirne la raffinatezza, non è cosa facile. Tanti, nel corso del tempo, si sono misurati nell’impresa, da Seneca a Pasolini, consci della potenza ineguagliabile dell’opera originaria. La regia di Gabriele Lavia, non nuovo all’approccio con i tragediografi classici, riesce a trovare un equilibrio tra l’originario antico e la potenzialità attuale, con qualche punta di apprezzabile originalità, come la doccia purificatrice di Medea dopo l’uccisione dei figli, e qualche sbavatura d’eccesso nei brevissimi incisi di canto, forse un pallido riferimento alla componente musicale della tragedia greca.