Torna la prosa al Teatro Niccolini di Firenze, riportato alla sua originaria funzione di teatro stabile, ma anche centro culturale polivalente dedicato alla cultura europea dove, accanto alla stagione teatrale, troveranno spazio mostre, convegni, una libreria e un caffè letterario.
Così, dopo Paolo Poli e Gabriele Lavia, tocca a Glauco Mauri e Roberto Sturno “dire cose utili divertendo” dando vita alla comica follia dei personaggi di due grandi drammaturghi quali Luigi Pirandello e Anton Čechov; la compenetrazione delle loro opere è evidente anche nelle scelte sceniche di Giuliano Spinelli, che rimangono stabili (tranne qualche piccolo accorgimento) per tutto lo spettacolo.
“Quattro buffe storie”, quattro atti unici, quattro opere immortali, quattro piccole perle rispolverate dalla compagnia Mauri – Sturno e portate in scena con l’intento di rappresentare la vita di quello strano e buffo essere che è l’uomo: i testi diventano un modello per comprendere l’umana esistenza, criticando la società odierna, come quella di allora. Accanto a loro una compagnia di attori ormai consolidata: Mauro Mandolini, Laura Garofoli, Amedeo D’Amico, Lorenzo Lazzaroni e Paolo Benvenuto Vezzoso.
“Cecè” e “La patente”, le prime due pochade, racchiudono tutta la filosofia del teatro pirandelliano: quelle tematiche amare quali l’ipocrisia della maschera (il proprio ruolo plasmato dagli altri, penetrante al punto di scarnificare la propria identità), le relazioni tra gli uomini (alterate da pregiudizi, preconcetti ed apparenze), l’“Io” sparpagliato, l’insoddisfazione tipica delle epoche di svolte e di incertezze (ora come allora), vengono servite delicatamente, con una velata ironia che le rende leggere e piacevoli, ma che nella continua lotta dell’essere verso l’apparire non celano lo specchio deformante della realtà, anzi fungono da lente di ingrandimento che condanna un mondo frivolo e corrotto.
L’ironia grottesca di Čechov, alla radice di tutte le sue opere, ci viene presentata attraverso “Una domanda di matrimonio” e “Fa male il tabacco”; il primo è un testo che personifica una comicità ai limiti dell’assurdo, un gioco di equivoci basato sulla ridicolizzazione dell’essere umano, canone del drammaturgo russo, mentre il secondo è un piccolo capolavoro, un’allegoria sulla decadenza di “corpus et anima” che getta uno sguardo tenero e crudele sui casi della vita. Glauco Mauri interpreta quest’ultimo monologo, considerato da lui stesso un piccolo gioiello drammaturgico: è il grottesco di Čechov che si trasforma in poesia, attraverso la grande interpretazione di un pilastro del teatro italiano, che dal graffio alla carezza, dal dramma alla commedia, dalla lacrima al sorriso, dona al testo quel suggestivo tocco di malinconia ed al pubblico una grande lezione di come la funzione del teatro sia infinitamente più poetica della realtà della vita, non a caso conclude affermando “Dixi et animam levavi”.
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Intervista a Glauco Mauri:
Eravamo abituati a vederla recitare al Teatro della Pergola; quest’anno la troviamo invece, con la sua compagnia, nella cornice del Teatro Niccolini, restaurato e riportato a nuova vita. Lei aveva recitato qua in passato, che effetto le ha fatto tornare a ricalcare questo palco?
Innanzitutto ci tenevo ad esserci, Firenze è una tappa che non manca mai.
Quest’anno c’era la possibilità di contribuire all’inaugurazione di questo teatro delizioso che è il Niccolini, riaperto dopo tanti anni. Un grande grazie da parte mia va a coloro che hanno collaborato e lavorato per riaprire, in tempi come questi, un nuovo teatro e sono bene felice di fare questa, diciamo, “inaugurazione” per la prosa con questo piccolo spettacolo.
I testi che lei porta in scena, soprattutto quelli di Pirandello, descrivono una società (quella dei primi anni del Novecento) che non presenta alcuna differenza con quella odierna.
Sì, infatti due sono i grandi temi di Pirandello: uno è quello de “La patente” dove il dramma è rappresentato da una società che pone ad un uomo una maschera che non gli appartiene, è costretto a vivere non la sua vita vera ma la vita che quella stessa società gli impone; ed è uno dei temi di Pirandello più vivi. L’altro tema si evidenzia con questo apparente comico da “pochade” che è “Cecè”: la cosa che mi ha colpito è che dal 1913 ad oggi la società non è cambiata per nulla, si continua a dare buste per “ringraziare”, per ottenere lavori. Ecco, questo cinismo che diventa comico è una critica verso la società di allora, ma il modo diciamo frivolo, senza remore, senza troppi pudori morali di affrontare la vita di allora corrisponde un po’ anche alla vita di oggi, o no?
Quindi oggi queste rappresentazioni non sono solo delle “pochade” fini a se stesse, ma anche, e soprattutto, una critica ed un’occasione di riflessione.
Esatto.
Lo scorso anno, durante un’intervista a Radio Città futura, raccontò un’aneddoto sulla rappresentazione di “Fa male il tabacco” tenuta da Memo Benassi durante una tournée in Sud America…
Era il 1954, io ero giovanissimo avevo 23 anni e mezzo; ed in quell’occasione mi fece l’onore di portarmi in una tournée in America del Sud. Si recitava: “Non si sa come” di Pirandello, “Spettri” di Ibsen, “Più che l’amore” di D’Annunzio e, per solo tre sere a Buenos Aires, tre atti unici di Cechov, tra cui appunto “Fa male il tabacco”; in quell’occasione accompagnai Benassi come suggeritore e dalla quinta ho sentito la sua recitazione e mi ricordo benissimo che rimasi talmente impressionato, fu una di quelle emozioni che fecondò la mia giovane vita d’attore e mi dissi: “Quando sarò vecchio voglio fare anche io questo personaggio così straordinario in cui il grottesco si abbina alla poesia”, e così dopo tanti anni ho portato in scena anche io Ivan Ivanovic Njuchin.
Il Glauco Mauri 23enne cosa proverebbe, penserebbe, ascoltandola ora sul palco, vedendola realizzare quel desiderio di tanti anni fa?
Avrei detto “Grazie”, non tanto alla qualità dell’attore, ma all’attore che ha mi ha fatto conoscere un testo che è un gioiello prezioso, un piccolo capolavoro e poi avrei anche apprezzato, eventualmente, la qualità dell’interprete; ma il dono più bello è il fatto di aver fatto conoscere un testo (a mio avviso) di una sì tale e commovente poesia.
Si dice che il teatro sia logoro ed impoverito ultimamente, con sempre meno giovani presenti. Lei cosa ne pensa?
In questo momento io ho fiducia nel teatro, sento una meravigliosa responsabilità nel far conoscere i grandi testi, i grandi poeti, i cantori della vita dell’uomo attraverso l’arte dell’interpretazione, ma oggi come oggi il teatro rimane una grande confusione. Oggi più che il brutto è di moda la banalità, ed è di gran lunga peggiore del brutto, perché il brutto ha una forma di reazione, se un’opera non piace o non sei interessato ti alzi e te ne vai, ma nella banalità non si ha mai nulla, non c’è una reazione, sono delle metastasi che silenziosamente tentano di entrare nel profondo della tua sensibilità, il tuo saper dire questo mi piace, questo non mi piace.
Oggi il teatro è pieno di banalità, ma anche di scelte coraggiose, fatte da compagnie giovani, ma spesso si raccontano banalmente determinate situazioni. Inoltre poi c’è una cosa che mi ha stufato veramente, ovvero il sentire attori o registi che commentano uno spettacolo definendolo come “Bellissimo, si ride moltissimo”: credo sia una cosa bassa, non è che a teatro si racconta solo barzellette, si deve anche ridere certo, ed il teatro comico è una cosa meravigliosa, ma su questo fatto che si debba ridere per forza anche nel momento tragico, nel momento triste, non sono affatto d’accordo.
Ringraziamo Glauco Mauri per il tempo e la disponibilità che ci ha concesso.