La scarna e desolante scenografia mostra un albero spoglio e rinsecchito sotto il quale, tra grandi mucchi di giornali, ristagna la vita dei due protagonisti, e di quanti si trovano a passare, sospesi in un tempo immobile in cui ogni giorno non si differenzia dal precedente.
Tempo di attesa di un evento mentre si dipanano i pensieri, i dolori, le paure, i torpori e perfino la consapevolezza dell’imperscrutabilità della vita e dell’inconsistenza della morte che può essere messa in atto in qualunque momento, un gesto come un altro.
L’opera più celebre di Samuel Beckett e testo fra i più noti del teatro del secondo Novecento, è teatro dell’assurdo per l’assenza di trama, teatro dell’incomunicabilità per incapacità di relazioni coerenti ma forse teatro della consapevolezza per l’attitudine di ciascun personaggio ad esprimere alcune verità, pur se scollegate e frammiste a luoghi comuni.
Speranza e disperazione, attesa e rassegnazione, prevaricazione e solidarietà nella magia della rappresentazione, metafora della realtà che lascia domande insolute, che non trovano risposta certa neanche nei Vangeli, come Vladimiro spiega a Estragone, e bisogna sempre inventarsi qualcosa per avere l’impressione di essere vivi.
Il linguaggio senza senso e scollegato dalle azioni e dai comportamenti riflette, come in uno specchio deformante, la difficoltà di individuare e perseguire un obiettivo comune, intelligibile a tutti, che caratterizza la società contemporanea. Loro aspettano Godot, ma chi è? quando arriverà? Anche noi non aspettiamo ogni giorno che accada qualcosa?
“Ci suicidiamo oggi o domani?” si chiedono i due vagabondi. Angoscia e immobilismo, tra farsa e tragedia, ripropongono ciclicamente lo stesso contesto, in un’attesa inconcludente, sotto i morsi del freddo e della fame, esorcizzati con citazioni evangeliche e turpiloquio quasi blasfemo.
La scelta registica di Claudio Boccaccini di far recitare i clochard in dialetto napoletano non è un mero esercizio di stile, rende, invece, meno straniante il dialogo fra i due, testimoni di una napoletanità rassegnata, dai ritmi lenti, dalle battute ripetitive, in un tempo dilatato cadenzato dagli stati d’animo. Il loro intercalare “Andiamo? – No, aspettiamo Godot” evoca il filo conduttore della domanda rivolta a Tommasino in Natale in casa Cupiello “Te piace ‘o presepio? – A me non mi piace”.
La parlata popolare, cui Eduardo ha dato dignità di lingua teatrale elevando il teatro dialettale ad autentica forma d’arte, diventa anche in questa messinscena espressione universale della condizione umana.
Questo fatalismo meridionale in bianco e nero viene travolto dall’arrivo irruento e policromo di Pozzo e Lucky, due figure che Boccaccini estrapola dal mondo felliniano, in cui i costumi, i colori, la parlata sono retaggi del mondo circense romagnolo. Un mondo fantastico popolato da personaggi clowneschi travolti da esplosioni di allegria e da improvvise malinconie. Potrebbe configurarsi come la variopinta proiezione dell’immaginario onirico dei due vagabondi durante il loro sonno notturno, sotto la gigantesca luna che si alza sul fondo.
Alle luci dell’alba, Pozzo e Lucky vanno via, per tornare nuovamente al calar della notte, uno cieco l’altro muto, dopo un tempo indefinito. Sì, infatti, i sogni svaniscono all’alba e, a volte, tornano a popolare le nostre notti.
Il capolavoro di Samuel Beckett è ben recitato, con il necessario straniamento, da tutti gli interpreti. Pietro De Silva e Felice Della Corte sono autentici vagabondi, stralunati e sconnessi nel linguaggio e nella postura. Riccardo Barbera è Pozzo, straripante clown visionario e cinico, istrionico e sadico, proiettato in una sfera di iperrealtà in cui le sue esigenze prevaricano la dignità del servitore (l’encomiabile Roberto Della Casa) cui lo lega un rapporto simbiotico, portato al guinzaglio e carico di bagagli, che si lancia in un monologo delirante con sprazzi di realismo quando Estragone gli rivolge un gesto di attenzione.
Le musiche originali di Massimiliano Pace si innervano tra i dialoghi, scandendoli come una partitura.