Nel quarantennale della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, si susseguono in tutta Italia gli omaggi e le rappresentazioni dedicate al poeta corsaro di Casarsa e fra la ricca programmazione degli spettacoli del Teatro di Roma l’opera più attesa era quasi certamente il Calderón con la regia di Federico Tiezzi che ha portato in scena la più difficile e complessa delle sei tragedie pasoliniane, una tragedia in versi scritta nel 1967 e pubblicata nel 1973.
“Mettere in scena Calderòn mi porta a fare i conti con quello che eravamo e che siamo diventati: e non parlo solo della Sinistra, ma di tutta la società italiana” aveva detto Tiezzi parlando della messinscena della tragedia.
Ritenuta da Pasolini fra le “più sicure riuscite formali” il Calderòn s’ispira a La vita è un sogno capolavoro del grande tragediografo spagnolo del Seicento Pedro Calderón de la Barca: la drammaturgia di Tiezzi, Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi ha rafforzato una sostanziale continuità-mescolanza fra il seicento e il fascismo mettendo in primo piano lo scontro fra l’individuo e il potere, fulcro della tragedia, anzi della tragicommedia stessa che si muove fra il dramma e la comicità surreale e stralunata.
I nomi dei tre protagonisti, Basilio, Sigismondo e Rosaura, restano immutati, ma Pasolini ha genialmente rimescolato le carte (siamo nella Spagna Franchista del 1976) lasciando susseguire tre sogni diversi in cui la protagonista Rosaura si trova collocata in tre luoghi diversi, alle prese con tre realtà che le appaiono sempre estranee.
Nessuno può sfuggire alla propria condizione sociale né combattere il potere, sembra voler ribadire Pasolini strumentalizzando i tre sogni di Rosaura: non può farlo la Rosaura aristocratica che si innamora di Sigismondo, ex amante della madre che scoprirà essere suo padre. Non può farlo la Rosaura prostituta che si innamora del giovane Pablito, che scoprirà essere suo figlio. Non può farlo la Rosaura borghese del terzo sogno, una moglie rassegnata al proprio destino che si innamora di Enrique, uno studente rivoluzionario.
“Con questo spettacolo vorrei restituire i temi di Pasolini, le sue ossessioni, le sue profezie sulla realtà, ma al contempo guardane negli occhi un autore significa per me mettere in scena anche lo sguardo che mi restituisce – aveva spiegato Tiezzi – Con Pasolini è facile perché lui si sdoppia e raddoppia tutti i personaggi. L’assenza di spessore psicologico delle sue figure parlanti è la chiara spia del fatto che esse non solo altro che proiezioni, controfigure di Pasolini stesso che, protetto dietro le parvenze dei personaggi, tende a confessare di sé ogni cosa”
Difficilissima da portare in scena, strutturata in sei stasimi (esattamente come la tragedia greca), il Calderòn di Tiezzi, prodotto dal Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana, è uno spettacolo impeccabile di forte eleganza formale che vive della bravura degli attori, fra interpretazione moderata, ma estremamente efficace (Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro, Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Francesca Benedetti) e che unisce alla perfezione del testo (una sublime tragedia in versi), le musiche inquietanti e oniriche di Mulholland Drive (Linch è maestro dei sogni-incubi), la dicotomia dei costumi in bianco e nero, un gioco costante di riflessi e di rimandi fra la realtà e il sogno lasciando interrogare lo spettatore sul tema della diversità, della libertà e del potere borghese. Imperdibile. In scena fino all’8 maggio.