Il teatro di parola di Samuel Beckett raggiunge il suo apice con quest’unica opera teatrale dedicata alla coppia, pubblicata nel 1961, in sorprendente concomitanza con il matrimonio contratto con Suzanne Deschevaus-Dusmenil dopo 20 anni di convivenza.
Winnie è conficcata nella sabbia fino alla vita. Una borsa e un vezzoso ombrellino costituiscono l’unico bagaglio di cui dispone per entrare in contatto con l’ambiente circostante. Dalla borsa estrae pettine, trucco, medicine e una rivoltella, mentre parla incessantemente.
Interlocutore silenzioso e nascosto alla sua vista è il marito Willie, allocato in una buca alle sue spalle, che legge il giornale e guarda immagini licenziose, dalla quale raramente emerge strisciando e rispondendo con suoni gutturali.
In questo non-luogo atemporale dove le due creature umane sono immobili in una fissità emotiva ed esistenziale priva di riferimenti spaziali, l’alternarsi del giorno e della notte è scandito dal suono di un campanello. Winnie, diafana figura dai capelli platinati, vestita come Marylin Monroe nelle commedie americane, è imperturbabilmente felice per le piccole cose belle che avvengono ogni giorno. Felice sempre, nonostante tutto, contro tutto. Attaccata alla vita e felice di esistere, ostinatamente, anche quando, nel secondo atto, appare sprofondata fino al collo. La voce e la mimica facciale sono l’unico mezzo di comunicazione col contesto.
Il marito, che adesso indossa il frac, emerge strisciando dal paravento ma non riesce a raggiungerla: ciascuno rimane attanagliato dal suo mondo fisico ed emotivo, privo di osmosi. E, tuttavia, per Winnie è ancora un giorno felice da salutare cantando un’aria da operetta, perché alla solitudine basta la compagnia dei ricordi e dei sogni. Illusione? Speranza?
Nella ciclicità della vita, tutto ogni giorno torna uguale a se stesso, anche l’entusiasmo e la fiducia alimentati dall’attesa. Conformismo dell’inganno o anticonformismo della follia?
L’approccio al testo così viene descritto dal regista Andrea Renzi, che è anche interprete di Willie: “è con emozione e timore che ci si accosta a uno dei maggiori testi contemporanei che appartiene di diritto al canone del teatro del secolo breve. In questa pièce visione e scrittura sono tutt’uno e nella corrispondenza tra Beckett e Alan Schneider, il suo regista di riferimento statunitense, scopriamo come l’uomo di libro, il romanziere, poeta, saggista è, fino in fondo, uomo di scena attento ai dettagli dei materiali scenografici, alle luci, e intensamente coinvolto nella misteriosa arte dell’attore in un teatro che si offre come precisissima partitura per gli interpreti e sfugge alle riscritture delle regie “creative”. Abbiamo dedicato una prima fase allo studio dello spartito senza ipotesi interpretative. Muoversi nel rispetto del dettato dell’autore e, nei margini definiti di questa strada stretta, sintonizzare i nostri strumenti di lavoro su una lunghezza d’onda tutta interna all’opera ci è sembrato un approccio naturale. Giorni felici ha rappresentato per Beckett, dopo anni di volontario esilio linguistico, un ritorno alla lingua madre, e ci è stato utile confrontare il testo inglese con la versione francese per meglio aderire alla versione italiana di Carlo Fruttero. Non si tratta di un atteggiamento filologico o di fedeltà all’autore, ma della semplice necessità di una comprensione profonda. Solo in una seconda fase di lavoro abbiamo cercato di personalizzare il margine di libertà che ci lasciava la partitura”.
Recitare per oltre un’ora un monologo espresso in un linguaggio onirico e fantasioso, non accompagnato dalla gestualità, con l’unico supporto della voce e della mimica, è impresa da grande attrice, nella quale poche si sono cimentate. La voce sottile e talvolta non modulata di Nicoletta Braschi non coglie i chiaroscuri e le vibrazioni di un ruolo che esplora tutti i registri, dal grottesco all’alienato, dal drammatico al comico, in una ossessiva e petulante logorrea che precipita nell’abisso dell’insensatezza.
La scenografia di Lino Fiorito ha seppellito la donna sotto un mucchio di sassi, come il cono di un vulcano che nel secondo atto collassa risucchiandola al suo interno.