Al debutto al Teatro dell’Opera di Roma, Damiano Michieletto, fra i più lanciati e popolari registi a livello internazionale che ha disseminato regie provocatorie in tutta Europa, ha proposto Il Trittico di Giacomo Puccini in una coproduzione del Det Kongelige Teater di Copenaghen e del Theater an der Wien: una sfida non indifferente dato che è raro vedere Il Tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi, due drammi e una farsa, susseguirsi in una sola serata (all’Opera non accadeva dal 2002), ma che ha entusiasmato il pubblico.
L’ambientazione contemporanea (siamo più o meno negli Anni Cinquanta ben sottolineati dai costumi di Carla Teti) potrebbe aver fatto forse storcere la bocca ai puristi che si sono però dovuti ricredere fin dall’incipit: il Trittico convince e del tutto.
Convince da un punto di vista musicale con la buona e sostenuta direzione del giovane Daniele Rustioni alle prese con la modernità soave di Puccini e che torna all’Opera dopo la Bohème della stagione estiva di Caracalla 2014.
Convince, e molto, da un punto di vista vocale con un cast di rilievo che scatena applausi a scena aperta (come accade nella celeberrima O mio babbino caro di Gianni Schicchi affidata alla Lauretta di Ekaterina Sadovnikova): il Trittico richiede ben 33 ruoli, ma in tal caso spiccano tra tutti la voce meravigliosa e l’interpretazione eccellente di Patricia Racette che passa con totale disinvoltura dal ruolo della fedifraga Giorgetta alla sofferente Suor Angelica in totale continuità, la raggelante zia Principessa di Violeta Urmana, la forza espressiva cupa e farsesca di Roberto Frontali nel ruolo ora di Michele, ora di Schicchi.
Punto di forza dell’allestimento è non solo una sostenuta continuità stilistica, ma anche drammaturgica che Michieletto ha voluto ravvisare nel corso di tre opere molto diverse dato che il Il tabarro è un dramma cupo della gelosia, Suor Angelica è un dramma al femminile, molto lirico e Gianni Schicchi è una commedia farsesca ed estremamente nera.
A garantire la totale continuità, le scene di Paolo Fantin, e le luci di Alessandro Carletti strutturate in container di diverse dimensioni dislocati gli uni sugli altri a creare il porto dove si ambienta Il tabarro (forse il migliore del Trittico) che ricorda molto da vicino i drammi (anche cinematografi) di Miller o Williams rappresentando non solo la fine di un matrimonio, ma anche un tradimento, un omicidio in una società di reietti e sofferenti. In Suor Angelica, la soluzione appare un po’ forzata con i container che si aprono fino a creare stanze luminose con foto devozionali attaccate alle pareti. In fondo, una sorta di lavatoio che diventa un luogo di penitenza dove scontare i propri peccati ricordando l’ambientazione punitiva simile alla Magdalene di Peter Mullan.
In Gianni Schicchi i container vengono accatastati gli uni sugli altri sviluppandosi in verticale, custodendo i mobili della casa borghese di Buoso Donati costellata dalla carta da parati con i viola gigli di Firenze, ospitando una dimensione onirica e un po’ farsesca della cattivissima commedia ispirata al famoso personaggio dell’Inferno dantesco che diventa un musical Anni Cinquanta fra pellicce e occhiali da sole. Non mancano i “link” di cui ha parlato Michieletto presentendo lo spettacolo (come le scarpette che ritornano in tutte e tre le opere), ma anche qualche forzatura (Lauretta è in dolce attesa e mostra a Schicchi l’ecografia del bambino) anche se tutto finisce per chiudersi circolarmente: i container si richiudono e torniamo al porto del Tabarro con Schicchi che torna ad essere Michele in un sovrapporsi di stili e ambientazione.
Innovativa, ma meno provocatoria di quello che ci si sarebbe aspettato, la regia di Michieletto varia anche in base al tipo di opera giocando tutto sul proscenio nel Tabarro, sfruttando la profondità in Suor Angelica, giocando sulla verticalità in Gianni Schicchi. Una rappresentazione-rarità che ha entusiasmato il pubblico ravvivando un Puccini forse poco noto al grande pubblico al di là del celeberrimo Schicchi.