di Agota Kristof
tradotto da Pietro Faiella
Interpreti Nicola Pannelli, Sergio Romano
Scene Mario Fontanini
Aiuto regia Aleph Viola
Regia Valerio Binasco
Produzione Narramondo Teatro/Popular Shakespeare Kompany/Fondazione Teatro Due Parma
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Il Teatro Stabile regionale, per la rassegna “Altri percorsi” ospita per la prima volta un testo di Agota Kristof, una delle scrittrici più moderne e interessanti del secolo, come sembra leggendo le note biografiche. Nata nel 1935 in una Ungheria profondamente segnata dalla Seconda Guerra Mondiale è arrivata in Svizzera, dove faticosamente apprende il francese, lingua che sceglierà per scrivere prima nell’ambito teatrale, poi cimentandosi con i romanzi: “La Trilogia della città di K.”, “Il grande quaderno”, “La prova” ecc. ecc.
Ha ricevuto inoltre riconoscimenti prestigiosi come il Premio Schiller, uno dei massimi premi letterari svizzeri, il Gottfried Keller- Preis, ed il Prix Kossuth.
“John e Joe” è uno dei suoi primi lavori giovanili.
L’inizio è delicato. Con movenze quasi clowesche, due attori si rincorrono sulla scena passando dietro ad una tenda/pannello e diventando l’uno il prolungamento dell’altro.
Come? A teatro tutto è possibile anche che due gambe divengano elastiche e le braccia si muovano a mulinello avanti e indietro, nuotando nell’aria. Due sono gli attori, due quindi, i personaggi, ma rispecchiano un’unica complessa identità suddivisa in mille sfumature.
Uno è magro, l’altro no. Uno è stralunato, l’altro no. Uno ha il cappello, l’altro no. Uno è rotondo, l’altro no. Uno è morbido, l’altro ruvido.
Uno parla lentamente con voce debole ma chiara e comprensibile, quasi sillabando come a capire meglio ciò che dice, l’altro farfuglia impastando le parole velocemente. Un tavolino rotondo fra loro due, che non li divide ma li comprende, nel senso di “prenderli insieme”. E questo è il senso di indissolubilità che li collega con un filo invisibile e li rende “necessari” l’uno all’altro.
La quadratura del cerchio è data da un fondale che prosegue sulla scena a far da pavimento. È rosa, quel che gli intenditori di moda chiamano “rosa antico” o forse “confetto” o ancora meglio “cipria”. Sì. È un colore rosa cipria a far da sfondo e da terreno di incontro – scontro alla storia di John e Joe che non ha inizio né fine anche se divisa in due o tre momenti-giornate. E come la cipria, pur impalpabile e leggerissima, penetra nelle narici soffocando tutti quelli che sono nelle vicinanze del piumino di cipria sventolato nell’aria, così l’atmosfera della Sala Bartoli si è impregnata della cipria esistenziale del piumino sventolato da John e Joe.
Gestualità, sicuramente non originale, vista in mille altri grandi attori personalizzata però con simpatia, voci e silenzi, sguardi e ammiccamenti, risate trattenute che scoppiano silenziosamente, pensieri che sfuggono, inseguiti e condivisi: di piccole parole si compone una frase.
È l’attesa, momento di apparente ozio, che invita a riflessioni profonde. Il “doppio” di intenso e problematico ricordo, la “coppia” comica e surreale, le “due metà della mela”… sono due ma sembrano tanti… ognuno può riconoscersi almeno in un aspetto, anche marginale, del carattere tratteggiato con tenera mordace bravura dagli attori, Nicola Pannelli e Sergio Romano guidati con discrezione e incisività dalla sapiente regia di Valerio Binasco.
I passi registrati del cameriere, presenza invisibile ed ingombrante all’inizio infastidisce, poi se ne cerca una ragione.
È il solito trucchetto per risparmiare. Solo due attori in scena annoiano, c’è poco da dirsi. Avanguardia. Sperimentazione. Teatro intimista, teatro da camera. Teatro da bar. Il teatro, quello vero, è fatto da una compagnia con tanti attori. Teatro è quando la storia si dipana, con intrecci a volte anche troppo aggrovigliati tanto che diventa difficile sbrogliare il gomitolo. Teatro è dove accadono i famosi Colpi di scena. Teatro è Shakespeare!… ma non solo… Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora…anche se non sempre limpida e rigenerante…
Abbiamo voglia di bere acqua fresca, pura, di sorgente… intanto aspettiamo fra un referendum e l’altro che l’acqua arrivi a tutti…
Teatro è aspettare sempre che arrivi qualcuno e a parte Godot non è facile aspettare senza che nulla accada.
Non voglio con questo penalizzare lo spettacolo, che ha assolutamente la sua ragion d’essere, ma il pubblico ha voglia di attori, tanti e bravi, della Compagnia che porta con sé il mistero del Teatro.
Vogliamo che lo Stato la smetta di tagliare i fondi alla cultura perché a parte le scelte più o meno intellettuali del regista o di chi per esso, la verità è che non ci sono i soldi e per poter recitare si fa di tutto.
Torniamo a John e Joe. Si sorride, nonostante la tristezza e la “drammaticità” della situazione. “Perché alcuni hanno tanti soldi e spendono e altri non ne hanno?”
La risposta non è il lavoro, perché “non si può lavorare più di tutto il giorno in un giorno”. La semplicità delle domande non trova risposte altrettanto evidenti, ma è illuminante il senso profondo nascosto dietro a tutto il ragionamento appena accennato.
La difficoltà di pensare invita alla riflessione. La lentezza dell’azione è una non-azione e pertanto il non-agire è esso stesso un procedimento filosofico che conduce al nucleo essenziale dell’esistenza.
Quando cominceremo a smettere di agitarci per rimanere fermi e lasciare che le cose accadano?
Siamo noi occidentali capaci di lasciar andare il flusso degli eventi senza dover cercare di controllare tutto? Quando capiremo che è Tutto un’illusione?
Quando capiremo di essere manipolati e convinti di amare la nostra condizione di schiavi?
Lo spettacolo ha ottenuto il suo scopo. Fa divertire e fa riflettere
Il pubblico applaude ed esce soddisfatto.