ispirato a Il Codice di Perelà di Aldo Palazzeschi
drammaturgia e regia di Aniello Mallardo
con Raffaele Ausiello, Antonio Piccolo, Giuseppe Cerrone, Marco Di Prima, Melissa Di Genova
Aiuto Regia: Giuseppe Cerrone
Musiche originali: Mario Autore
Scene: Sissi Farina, Antonio Genovese
Realizzazione scenica: Da Vinci Lab
Costumi: Anna Verde
Disegno luci: Aniello Mallardo, Sissi Farina
Progetto grafico: Riccardo Teo
Produzione Teatro In Fabula
————
La peculiarità che più salta all’occhio dopo aver visto “L’uomo di fumo” di Teatro in Fabula con la regia e drammaturgia di Aniello Mallardo, è a nostro parere la relativa struttura circolare che evidenzia, nella sua immediatezza, l’aspetto favolistico dell’opera alla quale si ispira, “Il codice di Perelà” di Aldo Palazzeschi.
All’inizio, difatti, in proscenio tre personaggi ammantati di rosso, figuranti Pena, Rete e Lama, misteriose nutrici di Perelà (che ne è il relativo acronimo), preannunziano con un prologo, elemento rituale delle fiabe tradizionali, quest’uomo di fumo la cui ombra quasi informe si proietta su due teli congiunti sul fondo, e sui quali tre maschere rosse troneggiano sulla scena essenziale. Ce le ritroveremo, le tre madri, direttamente alla fine quando decreteranno, ancora come voci extra-diegetiche, il mesto responso circa la discesa di Perelà nel regno di Torlindao.
Un’altra caratteristica della drammaturgia di Mallardo si evince invece confrontandola con la struttura del romanzo; i 17 capitoli che Palazzeschi mette in fila con estrema semplicità, lasciando che il vociare dei vari personaggi che fanno conoscenza dell’Uomo di fumo determinino il prosieguo degli eventi, senza dare alla fabula un vero e proprio intreccio, sembrano implodere nella stessa scrittura del regista. Più che altro Mallardo opera una scelta di episodi da tradurre in scena, ricreando, se possibile, un intreccio altro entro il quale dispone le singole scene con una sequenza differente, agganciandole al nucleo della drammaturgia stessa: la rappresentazione dei tre poteri forti quali finanza, religione e politica che, incarnati nel Re, Arcivescovo e nel nobile Zarlino, reggono il regno di Torlindao come qualsiasi altro su questo pianeta,.
Essi decidono di affidare all’Uomo di fumo, sceso sulla terra, il compito di dare loro un nuovo codice che sia scevro di tutte quelle suscettibilità ed interessi umani, una legge “pura” insomma, che sovrasta le strutture e la natura stessa degli uomini. C’è qualcosa di cristologico che si coglie in Perelà, (o di dostoesvskijana memoria, pensiamo a L’Idiota) e se Mallardo ce lo fa vedere in vesti chiare, richiamando “le candide carni” del Cristo in nome delle quali però l’Arcivescovo lo decreta anticristo, essendo invero di nero fumo, la sua leggerezza, sua sola natura, ci rammenta vagamente il piccolo eroe di Saint-Exupéry. Personaggi “atterrati” sulla terra con un messaggio naturalmente diverso, tenere ribellioni inermi che l’uomo non comprende.
Teatro in Fabula racconta di questa parabola futurista facendo corrispondere la relativa coralità alla propria cifra interpretativa, come anche nello spettacolo di sua produzione “Le 95 tesi”. affidando ai tre protagonisti Antonio Piccolo, Giuseppe Cerrone, Marco Di Prima, le cui voci assemblano in scena quel sistema umano ai danni del candido e muto – che nel testo di Palazzaschi non è – Perelà (Raffaele Ausiello) che solo nell’epilogo riuscirà a proferire una flebile e tenerissima difesa.
Nel libro, inoltre, la curiosità della corte di Torlindao per Perelà si somma al coro di dame, qui incarnate dall’unica figura femminile scelta dal romanzo, la Marchesa di Bellonda (Melissa Di Genova); con il suo costume viola che ci suggerisce non tanto un’epoca, quanto un atemporale mise futuristica. La marchesa è la controparte dell’irremovibile patriarcato e della visione androcentrica in cui il mondo versa e quindi, colei che vede in Perelà una sorta di innovatore, di promessa di equità e tenerezza fra i sessi. Dunque, anche l’amore, dunque quel suo cuore che invano tanto ha cercato in altri.
Un altro aspetto che riusciamo a cogliere in “L’uomo di fumo” – e che ci pare interessante – è il valore che si dà alla parola ed al linguaggio; da un canto l’arcivescovo caratterizzato da un ironico latinorum (che naturalmente è la soluzione più ovvia) e dall’altro il Re che più che sovrano, nell’ottica di Mallardo diviene un moderno adepto di alto lignaggio al perverso mondo della finanza che, in favore di una società sempre più tecnocratica e materialista, nel voler trattenere il “miliardesimo di un milionesimo di un millesimo di un centesimo di un decimo di un torlindino” mette in fila tante parole mutuate dai media odierni in fatto di economia; insomma, si allude al nostro presente, si attualizza quindi una fiaba marginale della letteratura nostrana che nell’allestimento accoglie a suo interno i suoni onomatopeici di “E lasciatemi divertire”, assunti come misteriosa lingua di eteree creature, lingua della leggerezza e lievità di Perelà e così somigliante a quella che si parla – a detta dell’innamorata Bellonda – nel “prato dell’amore” in cui gli amanti dialogano fra loro: “il loro repertorio può giungere fino a venti o venticinque frasi uguali per tutti, taluno ne ha appena disponibili quattro o cinque, e compone la propria eloquenza di un silenzio rotto qua e là dai più ebeti monosillabi.”
Lo spettacolo cerca di comporre un’armoniosa sequenza di scene che rimescola cronologicamente elementi afferenti al testo originale, senonché opta per un epilogo diverso, inscenando il suicidio della stessa Bellonda (e non quindi del padre) e per esso condannando Perelà. Nella conclusione si riaffida nuovamente la scena ai tre uomini del potere al posto della stessa marchesa che, nel romanzo, prende le difese dell’imputato e dando così scandalo per appropriarsi di un ruolo obbligatoriamente maschile.
In sostanza il lavoro di Aniello Mallardo si concentra si sulla natura favolistica e se vogliamo, paradossale della storia adoperando una scena che mette in evidenza simboli della finzione fiabesca (le maschere disposte sui teli, i tre fari rossi, luci chiaroscurali, l’essenziale dicotomia fra costumi fortemente irreali ed il protagonista vestito in chiaro), ma ci restituisce in più un contorno didascalico (che cogliamo anche nei toni degli attori in qualche parte dello spettacolo) col quale tende a fornire una critica un po’ semplicistica al nostro sistema socio-economico. Tuttavia, ne viene fuori una dimensione scenica in una forma circolare che riesce a rappresentare in senso sincronico e diacronico il mito di Perelà, uscito fuori leggero e quasi narrativamente informe dalla penna di un “saltimbanco”.