Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nel mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: GENNAIO 2016
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SUFRAGGETTE
Genere: drammatico
Regia: Sarah Gavron
Cast: Carey Mulligan, Meryl Streep, Helena Bonham Carter, Anne-Marie Duff, Ben Whishaw, Grace Stottor, Geoff Bell, Brendan Gleeson, Romola Garai, Finbar Lynch, Natalie Press
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2015
In sala dall’8 marzo 2016
Recensione: il bel film di Sarah Gavron giunge sui nostri schermi in occasione del settantesimo anniversario della concessione del voto alle donne italiane (avvenuto il 10 marzo 1946 in occasione delle elezioni amministrative), con decenni di ritardo rispetto alle principali democrazie occidentali: quando si tratta di riconoscere diritti per l’eguaglianza tra i cittadini indipendentemente da sesso, cultura, censo, religione, ruolo nella società… il nostro Paese – patria della cultura umanistica e cuore della cristianità – riesce regolarmente a giungere con notevole ritardo. Diritto al voto sancito sull’onda del ruolo ricoperto dalle donne nella lotta partigiana e della nuova realtà sociale e politica su cui è fondata la Costituzione che ha sostituito lo Statuto albertino. I primi Paesi a riconoscere alle donne il diritto di voto sono stati nel mondo la Nuova Zelanda (1893) e in Europa la Finlandia (1906). In Gran Bretagna il traguardo fu raggiunto nel 1918 quasi a suggello del ruolo ricoperto durante il primo conflitto mondiale dalle donne inglesi che negli anni della guerra avevano sospeso ogni rivendicazione dedicandosi ad attività di supporto militare. Le vicende del film si svolgono nel 1912-1913, ma la lotta delle inglesi per il diritto di voto alle elezioni parlamentari era iniziata nella seconda metà dell’Ottocento: oltre cinquant’anni di proteste pacifiche non avevano ottenuto nessun risultato e le donne continuavano a essere escluse dal voto insieme ai detenuti, ai malati di mente e agli uomini dei ceti meno abbienti. Nacque pertanto nel 1903 a Manchester (la sede centrale fu spostata a Londra nel 1906) per opera di Emmeline Pankhurst (interpretata da Meryl Streep) l’Unione Sociale e Politica delle donne che con il programma “Azioni non Parole” portò la lotta nelle strade dando grande pubblicità alla causa. Suffragette racconta uno dei periodi più drammatici di questa battaglia di civiltà in cui vi fu violenza da ambo le parti: alle brutali repressioni della polizia (per la prima volta furono usate le fotocamere per identificare le partecipanti ai cortei) risposero azioni sempre più violente che passarono dal lancio di mattoni contro le vetrine del centro di Londra al taglio dei fili del telegrafo fino all’uso di esplosivi fabbricati artigianalmente. Curiosamente di questo movimento che ha avuto un ruolo nella storia dei diritti nel Regno Unito è rimasta soprattutto l’immagine tra lo sprezzante e il beffardo coniata da tanta stampa dell’epoca: il film della Gavron è infatti il primo dedicato al tema. Suffraggette, però, non è solo un’opera sul movimento della Pankhurst, ma l’affresco di un’epoca in cui i lavoratori erano sfruttati dal progresso industriale. Il quadro disegnato con grande semplicità e intensità dalla regista mostra una società in cui la supremazia maschile era codificata da leggi che nemmeno i governi liberali (il cui ruolo era quello odierno dei laburisti) pensavano di modificare: significative le sequenze dell’audizione parlamentare e dei suoi risultati (per la prima volta sono state girate scene di un film nelle aule della House of Parliament). Filo conduttore del film sono la presa di coscienza e la maturazione politica della ventiquattrenne Maud Watts (Carey Mulligan), operaia – da quando aveva otto anni – in una lavanderia industriale dove respira vapori dannosi per tredici ore ogni giorno e dove, come tutte le colleghe, per non mettere a rischio il misero stipendio (molto ridotto rispetto a quello maschile, ma avveniva anche nell’Italia della seconda metà del Novecento) doveva subire gli abusi sessuali del capo/padrone. Dopo il lavoro c’erano marito e figlio da accudire. Maud (personaggio inventato anche se ispirato alla figura di Hannah Webster) è il simbolo della condizione femminile in quei decenni (non solo in Gran Bretagna) e di tutte le donne che per combattere una battaglia di civiltà sono state non solo perseguitate e incarcerate, ma anche abbandonate dai mariti e private dei figli. Con la sua origine proletaria ha arricchito il movimento, completandone la trasversalità, con istanze diverse da quelle delle borghesi illuminate come Alice Haughton (Romola Garai) che ne rappresentavano la spina dorsale. L’opera della Gavron dovrebbe essere vista da tutti, in particolare da coloro di qualsiasi età che hanno dimenticato o non si rendono conto (tanto la ritengono naturale) che la democrazia è costata sacrifici a intere generazioni e che, anche per rispetto di chi ha lottato, va difesa ogni giorno in primis con il fondamentale strumento del voto cui non bisogna mai rinunciare: non è una perdita di tempo. Impressionante e significativa l’immagine del potere trasmessa dal film: anziano, severo e soprattutto chiuso a qualsiasi novità che possa scalfire quell’immobilismo che significa autoconservazione. Era così allora e sostanzialmente è così anche oggi per cui per ottenere nuovi diritti è sempre valida la storica frase della Pankhurst: “Mai arrendersi, mai smettere di lottare”.
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LEGEND
Genere: thriller
Regia: Brian Helgeland
Cast: Tom Hardy, Emily Browning, Taron Egerton, Christopher Eccleston
Origine: Gb/Usa/Franci
Anno: 2015
In sala dal 3 marzo 2016
Recensione: chi ama le performance straordinarie non può lasciarsi sfuggire questo film illuminato dall‘eccezionale prova di Tom Hardy che – abbandonati i panni di Fitzgerald (il cattivo e traditore di Revenant) – interpreta i due fratelli Reggie e Ronnie Kray che dominarono negli anni cinquanta e sessanta la criminalità nell’East End londinese divenendo quasi una leggenda. Gemelli, erano profondamente diversi per fisico e carattere: Reggie era bello, affascinante e capace di controllare i propri istinti e gestire gli affari, mentre Ronnie fisicamente più corpulento era sospettoso, gay e non era in grado di tenere sotto controllo il sistema nervoso per cui finiva spesso coinvolto in risse. Il legame tra i due fratelli era comunque molto forte, cementato anche dal comune progetto-sogno di divenire i re della swinging London, meta che per qualche anno apparve a portata di mano sia per il numero di locali controllati sia per l’esercito di star internazionali da Frank Sinatra a Diana Dors e Shirley Bassey che si esibivano nei loro night assicurando quella ribalta cui anelavano e che poneva i loro locali al centro dell’interesse di quella Londra che uscita dalla guerra e dalla crisi postbellica desiderava divertirsi e spendere. Le vicende dei gemelli Kray hanno ispirato molti libri – in particolare quello di John Pearson (The profession of violence: the rise and fall of the Krays twins) da cui è stata tratta la sceneggiatura di Legend – e nel 1990 il film The Crays-I corvi con la regia di Peter Medak in cui i gemelli erano interpretati da Gary e Martin Kemp degli Spandau Ballet. L’opera di Brian Helgeland non è però un remake, ma è costruita su due pilastri originali: Tom Hardy che interpreta entrambi i fratelli e la valorizzazione della figura di Frances, la moglie di Reggie. Figlia dell’autista di Reggie, Frances è il filo conduttore del film raccontando dall’esterno la storia del suo folle amore per il marito e dell’ancor più folle illusione di poter vivere un matrimonio normale: le sue parole spiegano dall’interno la lenta ascesa criminale e la repentina caduta dei leggendari fratelli. Dal film risulta, quindi, – grazie anche all’ottima interpretazione di Emily Browning – una Frances non solo vittima, ma anche donna capace di tener testa al criminale che amava. Bella la ricostruzione della Londra di metà Novecento, frutto di un incrocio di tecnologie che partendo dai pochi ‘brandelli’ urbanistici ancora esistenti di quegli anni ne fa ritrovare fascino e magia a chi ha avuto la fortuna di viverli, mentre per i giovani è occasione di avere un’idea di Londra in un’epoca in cui ogni città grande o piccola aveva ovunque una propria personalità. Il film si avvale inoltre della splendida fotografia di Dick Pope che riesce a creare visivamente l’atmosfera un po’ cupa della vicenda e del classico humour britannico che sostiene dialoghi spesso brillanti.
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ROOM
Genere: drammatico
Regia: Lenny Abrahamson
Cast: Brie Larson, Jacob Tremblay, Joan Allen, Sean Bridges, William H. Macy
Origine: Irlanda/Canada
Anno: 2015
In sala dal 3 marzo 2016
Recensione: spesso, purtroppo, la realtà è peggiore dell’immaginazione: è il caso di Room, il bel film di Abrahamson adattato dall’omonimo romanzo di Emma Donoghue (che ha collaborato alla sceneggiatura) a sua volta ispirato da un fatto di cronaca che definire nera è un eufemismo. Nel 2008 in Austria la polizia arrestò, infatti, Josef Fritzl (definito il mostro di Amstetten, poi condannato all’ergastolo) che aveva tenuto segregata per 24 anni in un bunker la figlia da cui aveva avuto sette figli. La prima parte di Room è potente: lo spettatore viene immediatamente immerso nella piccola stanza (dieci mq circa) dove vivono Ma’ (Brie Larson che per quest’interpretazione ha vinto l’Oscar) e il piccolo Jack di 5 anni (un eccezionale Jacob Tremblay, attore canadese di 8 anni che meriterebbe l’Oscar se ci fosse quello per i ragazzini). Abrahamson vuol dare un taglio di apparente normalità con Ma’ e Jack che si svegliano nella ‘stanza’ e il bambino che saluta tutti gli oggetti che lo circondano. Per Jack la ‘stanza’ è il mondo, l’unico da lui conosciuto perché non è mai uscito da quelle quattro mura e non ha nessuna conoscenza dell’esterno (la luce proviene da un lucernaio irraggiungibile) se non quella fornitagli dalla televisione e dal suo immaginario stimolato dai racconti e dalle favole della mamma che tenta disperatamente di farlo vivere nel modo più normale possibile. Abrahamson e la Donoghue hanno realizzato un disegno notevole dei risvolti psicologici del normale rapporto madre/figlio in una situazione estrema. Abilissime le riprese (peraltro molto difficili in un ambiente così angusto) che alternano scene in cui lo spazio è reale e claustrofobico, ad altre in cui è dilatato a indicare come il piccolo Jack vede i diversi angoli della stanza. A questa prima parte si contrappone la seconda in cui Jack e Ma’ sono impegnati nel difficile percorso psicologico di reinserimento nel modo reale, in cui la libertà è comunque portatrice di dubbi, incertezze e pericoli connessi a una realtà sconosciuta cui si è impreparati (Jack) o di cui si sono persi i parametri (Ma’). Per Jack è anche la chiusura repentina con il mondo fantastico dell’infanzia a causa di luci, colori e rumori ignoti e quindi minacciosi e soprattutto dal doversi rapportare con altre persone diverse da Ma’ (in realtà non aveva contatti nemmeno con Old Nik: quando questi entrava nella stanza per portare il cibo o riscuotere il ‘tributo’ Jack veniva chiuso nell’armadio). Per Ma’ il discorso è ancora più complesso: la libertà chiude per sempre un’adolescenza rimasta cristallizzata per la prigionia e la pone di fronte a realtà differenti da quelle immaginate e a un mondo che la violenta in modo diverso, ma psicologicamente altrettanto pesante, assillandola attraverso i media per ‘darla in pasto’ alla morbosità del pubblico. Ricordi e rimpianti s’innestano nel difficile processo di recupero della propria identità. Trait d’union tra le due parti sono le sequenze – da manuale del thriller – della fuga di Jack sul furgone di Old Nick. Room si basa su un’idea geniale: l’intera vicenda è vista nell’ottica di Jack e ha un punto di forza nello straordinario equilibrio che i due protagonisti Brie Larson e Jacob Tremblay sono riusciti a trasferire dalle pagine del romanzo allo schermo.
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ATTACCO AL POTERE 2
Genere: azione
Regia: Babak Najafi
Cast: Gerard Butler, Morgan Freeman, Charlotte Riley, Aaron Eckhart, Angela Bassett
Origine: Usa/Gb/Bulgaria
Anno: 2016
In sala dal 3 marzo 2016
Recensione: per fortuna le strutture incaricate di proteggere il Presidente degli Stati Uniti sono un po’ più efficienti di come appaiono in Attacco al potere 1 e 2: in entrambi i film, infatti, il Presidente della prima potenza mondiale viene rapito con ridicola facilità. E se nel primo episodio i Nordcoreani avevano occupato con un blitz la Casa Bianca, in Attacco al potere 2 si ipotizza che il mandante dell’operazione – più vasta e complessa del semplice rapimento del Presidente statunitense – sia un certo Barcawi, terzo uomo più ricercato al mondo, tra i leader dell’internazionale terroristica (di matrice islamica) motivato all’azione anche da personale vendetta: una bomba (intelligente?) Usa ha ucciso sua figlia durante la festa di matrimonio. L’attacco terroristico questa volta è stato programmato a Londra dove, com’è consuetudine in simili circostanze, sono convenuti tutti i leader mondiali per il funerale del primo ministro britannico improvvisamente deceduto. Occasione ghiotta per un’azione terroristica finalizzata a decapitare i governi di molti Paesi. Il che avviene regolarmente con l’entrata in azione di diverse centinaia di uomini e l’esplosione di bombe in molti punti della capitale inglese. Il Presidente Usa salva la pelle, ma è rapito. Quello italiano, invece, scompagina i piani degli aggressori perché regista e sceneggiatori – non aggiornati sugli eventi politici del nostro Paese – gli fanno ‘marinare’ il funerale in compagnia di una bella fanciulla con la quale assiste dall’alto di una terrazza alle esplosioni. Il famoso M16 (peraltro orfano di James Bond) entra in azione – con la tardiva tempestività, comune anche ad altri servizi addetti alla sicurezza, che la realtà di questi anni ha purtroppo mostrato reale – con reticenze e diffidenze verso i colleghi delle altre Nazioni coinvolte. Per il Presidente Usa le cose si metterebbero male se per sua fortuna l’agente Banning (capo del suo personale servizio di sicurezza) non avesse accettato di rinunciare a dimettersi per accompagnare l’amico Presidente in questo viaggio: spetterà a lui, al Presidente e a una responsabile del M16 inglese cercare di salvare il mondo dal pericoloso Barcawi. Attacco al potere 2 (indubbiamente migliore del precedente episodio) ha un certo fascino per lo spettatore che cerca azione, sorprese, ritmo e colpi di scena, abilmente seminati dalla regia, senza porsi troppe domande sulla connessione logica degli eventi.
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AVE CESARE!
Genere: commedia
Regia: Joel e Ethan Coen
Cast: George Clooney, Josh Brolin, Scarlett Johansson, Alden Ehrenreich, Ralph Fiennes, Tilda Swinton, Frances McDormand, Channing Tatum, Jonah Hill
Origine: Usa/Gb
Anno: 2016
In sala dal 10 marzo 2016
Recensione: è un piccolo gioiello d’intelligenza e cultura cinematografica quest’ultimo film dei fratelli Coen e, anche se non rientra tra le loro opere migliori, ha il grande pregio di divertire (e in questi tempi se ne sente il bisogno) cinefili e non: i primi possono riconoscere generi e film citati anche se in modo simpaticamente parodistico dell’epoca d’oro di Hollywood (inizio anni cinquanta del Novecento), mentre il pubblico in cerca d’evasione trova di che divertirsi in una ‘sarabanda’ di situazioni e battute spiritose che hanno il loro punto di forza in un gruppo di validi attori cui occorre riconoscere il merito di aver accettato di fare i tonti riuscendoci molto bene, George Clooney su tutti. In quegli anni cuore della produzione cinematografica erano gli ‘Studios’ hollywoodiani in cui erano girati molti film contemporaneamente con star, pseudostar, registi, sceneggiatori, produttori… ognuno con problemi più o meno reali, capricci… insomma un sacco di grane che rischiavano di mettere in crisi il lavoro. Ogni ‘Studio’ aveva almeno una persona cui spettava il compito di risolvere velocemente tutti i problemi. I Coen raccontano la giornata di uno di queste: Eddie Mannix (l’ottimo Josh Brolin) uomo-grane della Capitol Pictures (ovviamente entrambi inventati nei nomi) impegnato su più fronti giorno e notte. Seguendo Mannix, lo spettatore s’imbatte in una serie di vicende esilaranti (a volte solo apparentemente se ci si sofferma a riflettere). Ognuno dei film in lavorazione pone problemi. Quello più importante è colpito da un vero dramma: Baird Whitlock, star e protagonista di un kolossal storico religioso (un divertentissimo George Clooney che ricorda Victor Mature che di questi film era simbolo) è scomparso e non per le troppo abbondanti libagioni, ma perché rapito da un gruppo di scenografi comunisti (si è negli anni del maccartismo e per molti intellettuali americani la vita è difficilissima) che vogliono richiamare l’attenzione sulla precarietà della loro categoria. Anche gli altri film regalano problemi al povero Mannix: la stella del western totalmente incapace di recitare imposta dal produttore come protagonista di una commedia romantica, la regina dei musical acquatici che deve nascondere una maternità fuori dal matrimonio…. E poi c’è la stampa alla ricerca di scoop (bella l’idea delle due gemelle direttrici di due testate concorrenti entrambe interpretate dalla brava Tilda Swinton): insomma non c’è pace per il povero Mannix. I Coen regalano molte scene esilaranti di grande raffinatezza: da ricordare su tutte la discussione tra i quattro rappresentanti delle religioni cattolica, protestante, ortodossa ed ebrea cui è stato sottoposto il copione per non aver fastidi quando il kolossal sarebbe entrato in programmazione. Ave Cesare è comunque un film con diversi piani di lettura per lo spettatore che vuol andare oltre il divertimento immediato. Non solo affresco di un’epoca della storia del cinema e del suo ruolo nella società perché molte scene (per esempio quella citata) sono anche motivo di riflessione sugli aspetti socio-culturali di quegli anni e sulle umane debolezze e ipocrisie (la soluzione escogitata per salvare l’immagine della star – e i bilanci della produzione – madre fuori dal matrimonio è avvenuta realmente) per non farsi emarginare da una società che non è detto fosse migliore dell’attuale.
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FOREVER YOUNG
Genere: commedia
Regia: Fausto Brizzi
Cast: Fabrizio Bentivoglio, Sabrina Ferilli, Teo Teocoli, Pasquale (Lillo) Petrolo, Stefano Fresi, Lorenza Indovina, Luisa Ranieri, Claudia Zanella, Emanuel Caserio, Pilar Fogliati
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 10 marzo 2016
Recensione: Forever Young è una splendida canzone degli Alphaville (nel film ottimamente interpretata con una lettura personale da Nina Zilli) presente per lungo tempo nelle hight parade di qualche anno fa: ben pochi dei molti che l’hanno amata avrebbero immaginato che quelle due parole sarebbero divenute uno stile di vita da cui farsi travolgere. La simpatica, divertente, sincera e amara commedia di Fausto Brizzi, giunto alla sua nona fatica, conferma la capacità del regista di individuare temi legati all’evolversi della nostra società e di abbozzare personaggi che ne rappresentano altrettanti aspetti: non poteva quindi mancare l’ossessione di restare sempre giovani. Manca purtroppo un raccolto adeguato alla semina fatta per cui il film pur con molte ottime intuizioni finisce per essere solo un divertimento ricco di stile e di notazioni intelligenti, ma sostanzialmente superficiale. Occorre riconoscere a Brizzi (anche coautore del soggetto e della sceneggiatura) che mettere sotto i riflettori questa visione giovanilistica della società per cui se non si è giovani non si è ‘in’ (anzi da ‘rottamare’ secondo un noto politico) è stata una grande idea: i personaggi del film li incontriamo ogni giorno per strada o sui mezzi pubblici. Sembra quasi che la progressione degli anni si sia improvvisamente bloccata: esistono i (più o meno) giovani e quelli delle generazioni precedenti che non sono riuscite a fermare il tempo per cui sono palesemente invecchiate e magari chiedono sul tram un posto a sedere. E anche l’abbigliamento riflette questa tendenza per cui sono sempre più rari i quarantenni e cinquantenni che non vestono come ventenni, spesso con effetti comici o penosi. Quando lo stesso impulso lo hanno i settantenni è una vera tragedia del buon gusto e della saggezza. Moda che comunque ha i suoi aspetti positivi con il fiorire di palestre, centri di estetica e benessere, diete, attività sportive… sono decine di migliaia i posti di lavoro e di questi tempi è una vera fortuna. Nel film questi temi e queste critiche vi sono tutti. Forever Young è articolato su tre storie parallele, ognuna nel suo genere esemplare. Teocoli è Franco, un avvocato sessantenne salutista, sempre attento alla dieta e sportivo (le maratone le corre, non le guarda): suo contraltare è il genero (Stefano Fresi) secondo violino molto grasso e ottima forchetta. Il regista purtroppo si ferma un po’ alle macchiette: si ride spesso, ma resta un po’ troppo fugace l’importanza assegnata all’immagine esterna anche sul lavoro. Nella seconda storia Angela (un’ottima Sabrina Ferilli che fa vivere con equilibrio e senza sbavature il proprio personaggio) è un’estetista quarantanovenne che ha una ‘storia’ con il ventenne Luca (uno spontaneo Emanuel Caserio): ben tratteggiate le diverse visioni che di quel rapporto hanno i due protagonisti. Simboli del ‘forever young’ sono soprattutto i genitori separati di Luca: la madre che veste e cerca di vivere come una ragazzina e il padre Diego (Lillo del noto duo ‘Lillo e Greg’) DJ radiofonico espulso dalla sua trasmissione da un rampante ragazzino che meglio interpreta i gusti dei coetanei. Il peregrinare di Diego alla ricerca di un nuovo programma evidenzia un grave problema della nostra società: perdere il lavoro intorno a cinquant’anni è drammatico essendo considerati vecchi per un nuovo inizio e giovani per la pensione. Amara nell’apparente gioiosità è la conclusione: Diego accetta (per vivere e nell’illusione di ritrovare share) di farsi ridicolizzare e insultare in trasmissione, ma qual è il futuro di generazioni che decretano il successo degli insulti e della volgarità? Nel terzo episodio Giorgio (un misurato Bentivoglio), cinquantenne di successo, vive con una giovane studentessa (quasi fosse un obbligo sociale) e cerca avventure con coetanee per rivivere quelle sensazioni della sua gioventù che la ventenne non gli può dare. Essere ‘forever young’ rovescia i canoni tradizionali del tradimento: un tema psicologicamente molto interessante che purtroppo non è approfondito essendo privilegiata la ricerca di una facile comicità nella troppo lunga vicenda della festa di compleanno. Peraltro – pur con gli accennati limiti – Forever Young è un bel film, raffinato in molti passaggi e ben interpretato, che diverte e per chi vuole offre spunti di riflessione non banali.
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WEEKEND
Genere: drammatico
Regia: Andrew Haigh
Cast: Tom Cullen, Chris New, Jonathan Race, Laura Freeman, Jonathan Wright
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2011
In sala dal 10 marzo 2016
Recensione: sull’onda del successo di 45 anni (2015) giunge finalmente anche in Italia Weekend – il secondo lungometraggio di Andrew Haigh (il primo Greek Pete del 2009 è un docufilm su un escort londinese) – che ha raccolto numerosissimi premi in tutto il mondo. Haigh è un regista molto interessante e i due film proiettati sui nostri schermi sono stati un’autentica sorpresa per lo stile e per come raccontano l’amore in modo magistrale e senza idealizzazioni, ma semplicemente come elemento fondamentale nella vita di tutti, persone qualsiasi e non eroi, e frutto non di momenti epici o drammatici, ma di piccole lotte quotidiane. E se in 45 anni Haigh ha potuto avvalersi di due mostri sacri come Courtnay e la Rampling (per questa interpretazione vincitrice dell’Orso d’argento a Berlino), in Weekend i due protagonisti pur bravi non prevaricano i meriti della regia e della sceneggiatura (dello stesso Haigh). I protagonisti di Weekend sono due gay trentenni che si conoscono un venerdì sera in un locale di Nottingham (l’ambientazione in provincia è importante perché le mentalità sono diverse da quelle di Londra o di una città di respiro internazionale), simpatizzano, si sentono attratti reciprocamente e finiscono per trascorrere la notte insieme. I due giovani, Russel e Glen, provengono entrambi dal proletariato operaio, ma sono profondamente diversi per carattere e psicologia, anche nel modo di rapportarsi con la propria omosessualità: Glen la vive apertamente, mentre Russel è ancora condizionato dalle convenzioni della ‘normalità’. Se divenissero una coppia – come avviene in tutte quelle ben assortite, anche etero – si completerebbero a vicenda. La loro storia però non ha futuro: Glen ha deciso da molto tempo di trasferirsi a Portland (in America) e partirà il lunedì successivo a quest’ultimo weekend in patria. Potrebbe quindi essere un incontro occasionale, invece il feeling che è scattato li porta a cercare di conoscere più profondamente l’altro e in questo percorso anche se stessi. Haigh fornisce in modo sincero e realistico la foto di un momento importante ed emozionante (perché tale è il nascere di un amore) che non è solo gay o etero, ma appartiene all’umanità poiché tutti hanno il diritto di amare, essere felici e costruire una famiglia. E i sentimenti che emergono nella loro delicatezza (al di là del linguaggio) sono comuni a tutti coloro che si sono innamorati almeno una volta nella vita. Weekend racconta in modo sobrio, sincero e senza ipocrisie uno spaccato di vita gay distruggendo ogni (falsa) retorica su tali relazioni quasi sempre frutto di pregiudizi, disinformazione e di una cultura omofoba basata sul nulla e che dimentica la fondamentale indicazione di tutte le religioni (indipendentemente dalle distorsioni) dell’amore quale elemento fondante dei rapporti tra gli essere umani.
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BILLY IL KOALA – THE ADVENTURES OF BLINKY BILL
Genere: animazione
Regia: Deane Taylor
Cast delle voci: Renato Novara (Billy), Tiziana Martello (Nutsy), Claudio Moneta (Jacko), Giulia Fanzoso (Betty mamma koala), Luca Ghignone (Bill papà koala), Pietro Ubaldi (Cranky), Alessandro Capra (Robert), Francesco Mei (Splodge), Cinzia Massironi (Beryl), Alessandra Karpoff (Cheryl), Mario Zucca (Sir Claude),Riccardo Lombardo (Wombo), Paolo De Santis (Jorge), Serena Clerici (Marcia)
Origine: Australia
Anno: 2015
In sala dal 31 marzo 2016
Recensione: giunge – grazie a Micromega Distribuzione cui si deve la possibilità di godere opere di particolare rilievo e interesse artistico – la più recente ‘reincarnazione’ di Billy il koala, il mitico personaggio frutto della fervida fantasia di Dorothy Wall che dedicò a quest’orsetto australiano dotato di marsupio una serie di libri per l’infanzia (ancora oggi ristampati): il primo (Blinky Bill: The Quaint Little Australian) fu pubblicato nel 1933. Un successo che ha attraversato i decenni per giungere inalterato nel nuovo millennio: accanto ai libri due serie televisive con diffusione mondiale (1984 e 1993) e diversi lungometraggi (il primo del 1992 è Blinky Bill: The Mischievous Koala) hanno deliziato generazioni di bambini con le avventure di quest’amatissimo animaletto che vive principalmente sugli eucalipti (delle cui foglie si ciba abbondantemente) nelle regioni costiere dell’Australia tra Adelaide e la Penisola di York. Naturalmente quando nel 2010 sono iniziati gli studi preparatori del nuovo film produttori e regista si sono posti il problema di adeguare i personaggi ai bambini di oggi i cui stimoli e conoscenze sono diversi rispetto alle generazioni passate: il risultato è stato un film godibilissimo (e non solo da parte dei piccoli) e affascinante per immagini, soluzioni tecnologiche e fantasia nel rispetto dello spirito originario che incarna ottimismo, amicizia, senso della famiglia e spirito di fratellanza, concetti profondamente radicati nella cultura e nello spirito australiano. Billy il koala è un ‘road movie’ e come tale pieno di avventure a volte commoventi, sempre esilaranti e ricche di fantasia che affascina a una prima lettura, ma ancor di più se si vuol andare oltre le immagini che scorrono sullo schermo. Quello compiuto da Billy è un percorso di maturazione, iniziatico alla vita dal significato profondo che andrebbe ben inculcato nei bambini di oggi. Billy è un simpatico cucciolo che vive con la mamma Betty e papà Bill (famoso e indomito esploratore) a Greenpatch, pacifico villaggio multietnico (vi convivono in pace molte razze di animali) creato dal papà di Billy che vi ha infuso lo spirito di fratellanza per cui è aperto a tutti nonostante che il sindaco Cranky (un lucertolone grande rivale di Bill) tenti di seminare la paura verso gli estranei alla comunità. Tutto procede bene fino a quando papà Bill non cede al desiderio di esplorare l’Entroterra con il pericoloso e sconosciuto deserto. Dopo un anno non è ancora tornato e tutti pensano che sia morto con la sola eccezione di Billy che decide di andare a cercarlo. Intanto a Greenpatch domina Cranky che ha instaurato un clima di paura condito con un sempre più accentuato culto della personalità. Naturalmente mamma koala si oppone alla partenza di Billy che con un sotterfugio riesce a scappare iniziando il suo viaggio iniziatico alla vita (per un cucciolo landa e deserto inesplorati): per sopravvivere e affermarsi deve crescere e soprattutto scoprire doti che nella tranquillità del villaggio non sapeva di possedere. E ha bisogno di amici – da soli non si va da nessuna parte – che trova nel simpatico e saggio clamidosauro Jacko e nella koalina Nutsy. Nutsy è nata e cresciuta in uno zoo ed è abituata a una vita assolutamente sicura e ad aver sempre qualcuno che si occupi di lei: rimasta casualmente isolata dal personale che la trasferiva, è costretta ad affidarsi a Billy e a compiere un viaggio parallelo alla scoperta della sua vera natura e del valore della libertà. Il viaggio di Billy, Nutsy e Jacko è ovviamente ricco di colpi di scena incontri e avventure in cui trionfano creatività e fantasia. Il film realizzato in digitale ha in alcune sequenze immagini che specialmente per l’uso del colore ricordano i migliori esponenti dell’impressionismo australiano. Ma come per tutte le fiabe sono i messaggi didascalici che, anche se scomodi, occorre trasmettere ai bambini: non subire le angherie del potere (il sindaco Cranky), non temere estranei e diversi, avere il coraggio di uscire dall’ambito protettivo della famiglia se si vuol crescere e conoscere se stessi e le proprie possibilità, essere leali e aver sempre presente che il coraggio se non è abbinato all’intelligenza (che permette di bilanciare anche eventuali inferiorità fisiche) non è sufficiente.