Zio Vanja di Anton Cechov condensa il dramma dell’attesa. Qualcosa che potrebbe sconvolgere la vita, dare una sferzata ai sentimenti, offrire una speranza di cambiamento, abbattere la noia, scuotere dall’inerzia fisica e mentale che fa sprofondare nell’indifferenza. In nuce il germe di quel genere teatrale che, qualche decennio dopo, troverà espressione nel teatro dell’assurdo di Samuel Beckett.
Duccio Camerini ne fornisce una versione innovativa, sfrondata dai manierismi ottocenteschi che si sono nel tempo stratificati sul testo, con messinscene paludate o stravaganti, anche ad opera di affermati registi. Ne ha, invece, rilevato l’aspetto naturalistico, informale e perfino demenziale, giocando quasi con i tic e le ubbie dei protagonisti, mettendone anche in luce le virtù.
Ne è scaturito uno spettacolo moderno, agile, in due atti (contro i quattro originari), in cui sono stati soppressi i ruoli del vecchio professore in pensione, di Marija madre della sua prima moglie e della balia, proiettati come ombre cinesi dietro un bianco fondale.
Camerini, che ha maturato una lunga dimestichezza con Cechov, presenta questo lavoro come il racconto sentimentale di una famiglia, in cui si intrecciano sogni, aspettative e timori, espressi a volte in maniera scanzonata e ridicola, secondo la risonanza interiore e l’inesperienza della vita.
Il tema del tempo e dell’età viene scansionato dal regista in relazione alla biografia dell’autore, morto poco più che quarantenne, dopo aver vissuto un’esistenza modesta e irreprensibile. Un giovane vecchio, ingenuo e disincantato, il più giovane degli autori classici, che condensa in questi ossimori l’essenza del suo sguardo sul mondo e sulla storia del suo paese. Chiosa Camerini: “Il tempo della forma è la vecchiaia, la vera vecchiaia, quella che limita i nostri movimenti, interni ed esterni. Antoscia Cechonte, questo era il suo nomignolo d’arte da giovane, quando sperimentava i suoi primi racconti, ha fregato la morte, morendo prima di farsi incasellare. Vecchio non c’è diventato mai”.
Questo allestimento prescinde dalla connotazione geografica e storica, evidenziando l’atmosfera campagnola e la monotonia della vita contadina “la Russia si sente poco, è uno sfondo. Su tutto ho voluto un’anima vitale e latina. Durante le prove, ripetevo: non pensiamo a Stanislavskij, pensiamo a Dino Risi”.
In una residenza di campagna in cui sono giunti due ospiti dalla città, i protagonisti si confrontano, si scontrano e si innamorano, non ricambiati. Allontanarsi sarà la soluzione per ristabilire gli equilibri.
Novecentesca l’ambientazione, la scenografia e i costumi. Agile, naturale, spontanea la recitazione, priva dei toni aulici in cui a volte si indulge per accentuare la drammaticità del testo, che Camerini ha sfoltito invece di ogni nota dolente, facendo diventare centrale e perno della vicenda il ruolo del dottore, che interpreta personalmente, portatore di una spiccata coscienza ecologica moderna, dall’anima tormentata da un profondo bisogno di attenzioni.
Gli altri interpreti sono Sandro Calabrese che delinea uno stravagante zio Vanja, Maria Vittoria Pellecchia è remissiva e sprovveduta nel ruolo di Sonja e Mattia Giovanni Grazioli è il giovane fratello, Francesca Sgheri è una sensuale Elena, Ciro Carlo Fico è il bislacco Dente Cariato.