Théâtre des Bouffes du Nord
in coproduzione con The Grotowski Institute; PARCO Co. Ltd / Tokyo; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; Young Vic Theatre; Singapore Repertory Theatre; Théâtre de Liège; C.I.R.T., Attiki Cultural Society and Cercle des Partenaires des Bouffes du Nord
basato sul Mahābhārata
scritto da Jean-Claude Carrière
adattato e diretto da Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
musica Toshi Tsuchitori
luci Philippe Vialatte
costumi Oria Puppo
con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan
Spettacolo in inglese sovratitolato in lingua italiana
adattamento e traduzione a cura di Luca Delgado
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Atto unico di assoluta intensità tratto dal più ampio poema epico della letteratura mondiale, il campo di battaglia rievocato da Peter Brook è un prezioso distillato del suo capolavoro del 1985, studiato nei dettagli per riportare in summa alla luce tutta la sacralità dei temi universali ed eterni che accompagnano gli esseri umani sin dagli albori della civiltà. Incanta la semplicità della scena avvolta nella magia delle luci soffuse che ricostruiscono sapientemente le atmosfere sospese ed ultraterrene di una dimensione divina, solare, inconscia, a volte infernale. Seduce la prova degli attori, magistrali interpreti di parabole antiche e dense di significato, mai come oggi tanto attuali e sibilline. Una guerra fratricida porta con sé sterminio e rimorso profondo e ammonisce tutte le generazioni future: non vi è che sconfitta nella sopraffazione violenta. La vittoria affligge i sopravvissuti allo scontro bestiale e li elegge sovrani delle loro responsabilità e di tutte le conseguenze di un tragico massacro, destinandoli a vagare in penitenza alla ricerca di una pace annientante. Ma se “nessun uomo è interamente buono” e “nessun uomo è interamente cattivo” lo dobbiamo al dubbio che perdura oltre le nostre scelte, irrora di nuova linfa i nostri giorni e tutta la nostra esperienza; ogni percorso è ricerca di giustizia, di senso, di un conforto mancato, di appagamento, ma, insieme con la crescita interiore, porta in seno anche il peso del sacrificio, il dolore della perdita e certamente, nelle nostre debolezze, la spia insita delle prove che ci attendono. Provocare distruzione, generare disperazione e smarrimento appare subitaneo strumento di controllo della nostra paura ancestrale della morte, ma non ci esorcizza, non ci priva della stessa sorte e non ci difende da quella sofferenza che abbiamo provocato.
Vale invece la pena rammentare bene che se “la distruzione del mondo accadrà ancora, ancora e ancora” ogni fine equivarrà ad una rinascita.
Ines Arsì