Chi conosce e frequenta Venezia si sarà accorto del progressivo fenomeno di “turisticizzazione” che interessa la città ormai da qualche decennio: botteghe artigiane, panifici, macellai, fruttivendoli e negozi di ogni tipo vengono sostituiti da una serie infinita di negozi ricolmi di cianfrusaglie, souvenir, gondole di plastica, vetri di Murano Made in China e pizzi di Burano made in Bangladesh. Sono i sintomi avanzati di una malattia che se non curata in tempo risulterà mortale per la città, un morbo che si sta propagando inesorabilmente in tutti i sestrieri includendo, purtroppo, anche uno dei teatri più belli e famosi del mondo.
Assistendo a questo Barbiere di Siviglia la sensazione è stata proprio questa: uno spettacolo mediocre, proposto ad uso e consumo delle centinaia di turisti che, durante la loro visita nella città lagunare aggiungono una serata all’opera ad una visita a piazza san Marco corredata dall’immancabile giro in gondola. Il teatro si avvale naturalmente dell’effetto di meraviglia che comincia ben prima dell’apertura del sipario damascato, tra i marmi e i lampadari del foyer, tra gli stucchi dorati dei palchi e gli affreschi della volta, che già di per se costituiscono un’esperienza degna di essere vissuta. Purtroppo però la meraviglia – almeno per chi non si è presentato in bermuda e non si è tolto le scarpe durante la rappresentazione per riposare i piedi – si è conclusa subito dopo l’ouverture, eseguita, bisogna concederlo, magnificamente, dall’orchestra del teatro diretta da uno Stefano Montanari in gran forma.
Questa produzione, contrariamente alla Traviata di Carsen, anch’essa ripresa più volte in quasi 15 anni dalla prima, dimostra tutta la sua età, senza proporre davvero un’idea, né una qualsiasi interpretazione degna di nota, almeno non nel 2016. Così come Rossini volle rappresentare una società priva di senso dell’orientamento, incastrata assieme a lui stesso tra un secolo e l’altro, con questa rappresentazione il teatro dimostra la sua tensione tra lo sforzo di mantenere i conti in ordine – uno dei pochi a riuscirci, nonostante il continuo calo dei finanziamenti pubblici – e conservare la dignità del nome e della storia che indossa, come un manichino immobile in una città ormai spopolata di veneziani e sempre più invasa dal barbaro turismo mordi e fuggi.
Bepi Morassi ci ha proposto un Barbiere stantio, farcito di gag da avanspettacolo che non fanno davvero ridere come vorrebbero, con una regia didascalica adagiata sulla scenografia “scolastica” di Lauro Crisman, autore anche dei costumi: un insieme scialbo, dal quale purtroppo non sono emersi nemmeno i cantanti.
Il barbiere di Siviglia non presenta partiture difficili dal punto di vista interpretativo, ma per contro richiede ai cantanti doti recitative diverse da quelle delle opere serie, soprattutto con una regia che prevede movenze sincroniche da avanspettacolo americano anni ’30. Purtroppo il risultato è sembrato quasi amatoriale, non dal punto di vista vocale ed orchestrale ovviamente, ma proprio in quella particolare attitudine alla movenza (che non si può definire coreografia) richiesta dal regista e tipica delle opere buffe (anche se questa non si può definire tale fino in fondo, così è sembrato).
Perfino il coro della Fenice, diretto da Claudio Marino Moretti, che ci ha abituati a performance eccellenti, sembrava sotto tono, con un suono d’insieme meno armonioso del solito e movenze ingessate e poco sincroniche.
Come già accennato, l’unica nota davvero positiva è stata la direzione di Stefano Montanari, che porta un pizzico di barocco sulla bacchetta, donando alla partitura una dinamicità sempre piacevole e mai scontata, offrendo un’interpretazione equilibrata, dinamica, sorprendente ed estremamente interessante.
Julian Kim nel ruolo di Figaro conferma le sue eccellenti doti canore, anche se il ruolo non gli si addice del tutto, esasperando l’aspetto buffo del personaggio sembra trovarsi spesso perso sul palcoscenico, dimenticando le “mossette” impostegli dalla regia.
Anicio Zorzi Giustinani è invece un Conte d’Almaviva con una buona presenza scenica, che pecca però nel cantato, dimostrando poca agilità nei passaggi più acuti, purtroppo per lui molto frequenti.
Meglio Chiara Amarù nel ruolo di Rosina: anche se manca di pienezza nei toni più bassi e di agilità nei gorgheggi più acuti, risulta perfettamente calata nel ruolo, offrendo nel complesso un’ottima performance, incarnando alla perfezione il suo personaggio sospeso tra la frivolezza e l’astuzia.
Ad emergere nel cast è comunque Omar Montanari, ormai specializzato nel repertorio rossiniano: nel ruolo di Bartolo il baritono romagnolo offre un’interpretazione genuinamente buffa, senza sfociare nel grottesco della mimica esagerata, e ben riuscita, pur senza particolari virtuosismi canori.
Senza gloria e senza infamia anche Roberto Scandiuzzi (che pure ha regalato una godibile “la calunnia è un venticello”) nel ruolo di Don Basilio e William Corrò nel ruolo di Fiorello, simpatica la Berta di Giovanna Donadini.
Il termometro del successo di questa rappresentazione è dato dal Sold Out, dal susseguirsi di applausi a scena aperta e dagli scrosci finali, ma anche dal chiacchiericcio e dal continuo andirivieni in platea che dimostrano, in fondo, come la strategia commerciale del sovrintendente Chiarrot sia di una genialità funzionale alla sopravvivenza di questa istituzione. Tuttavia non possiamo non provare un moto di tristezza pensando alla fama del teatro, dove i più grandi degli ultimi tre secoli hanno lasciato una traccia sempre più sbiadita. Qualcuno lamenta che Venezia venga trattata come una puttana, forse questo vale anche per la Fenice, o forse è giusto che, in epoca di crisi e di tagli, i teatri trovino il modo di sostentarsi da soli vendendo biglietti a cifre altissime a turisti desiderosi di provare un’esperienza, più che di apprezzare un’opera d’arte. La risposta la darà il tempo.