Una scenografia scarna che condensa un universo di emozioni, espresse con la nonchalance e la naturale spontaneità delle anime semplici, non alterate dalle sovrastrutture emotive e sociali.
Sgorga così, dai discorsi sincopati e ripetitivi di due clochard al tavolo di un bar, il funzionamento del mondo dell’economia che assegna la ricchezza per appartenenza familiare, una sorta di predestinazione contro cui nulla può il merito.
Le espressioni verbali ridotte ai minimi termini rendono, tuttavia, serrata la comunicazione che scandaglia il senso della vita in un’aura di poetica ingenuità.
John e Joe, poveri e strambi, si incontrano tutti i giorni al bar, concedendosi il piacere di una grappa. Il giorno che eccedono nelle ordinazioni, uno deve cedere all’altro il biglietto della lotteria per contribuire a pagare il conto. La vincita che ne deriva li dividerà e, nel contempo, rappresenterà il prezzo della riconciliazione in nome della vera amicizia.
Desiderare un cambiamento tentando la fortuna e rinunciare a una possibilità concreta sembra paradossale, come paradossali sono tutti i loro comportamenti. È l’assurdità dell’innocenza messa a confronto con la complessa quotidianità della condizione umana. “L’essenziale è invisibile agli occhi, non si vede bene che col cuore” afferma il Piccolo Principe di Saint-Exupéry.
E con la naïve genuinità del cuore e la poesia dei dialoghi, i due amici si affidano all’ineluttabilità della vita, riprendendo a parlare, con la lieve delicatezza dei pagliacci, dell’amicizia, della solitudine e di come le leggi economiche li condannino a restare nel ghetto dei reietti.
Un testo fortemente comico venato di malinconia.
La scrittura di Agota Kristof è intensa, realistica e idillica. L’autrice ungherese, espatriata dopo la repressione sovietica del 1956 a Budapest, si trasferisce in Svizzera dove inizia a studiare la lingua francese che adotterà nella produzione letteraria e drammaturgica, che recherà l’eco delle esperienze vissute,la guerra e l’esilio.
La regia di Valerio Binasco è condotta con mano leggera e salda nell’affrontare il testo e nel dirigere Nicola Pannelli e Sergio Romano che aderiscono al sottile gioco buffonesco con intrinseca persuasione. Con i due attori il regista ha avviato da molti anni uno studio di approfondimento sulla recitazione del “clown lunare”, quello che evoca Stanlio e Buster Keaton, iniziato con i fool shakespeariani e continuato con le maschere di Goldoni: “Clown e fool sono personaggi speciali, che prendono su di sé tutto il ridicolo degli uomini senza giudicarlo, quasi senza accorgersene. La gente che li osserva si riconcilia con il ridicolo, e impara a scoprirne la bellezza”.
Una rosa rossa che sbuca dal tavolino del bar si staglia contro un telo sbiadito, elemento di separazione tra il gioco e la realtà. Davanti, seduti al tavolo, solo i due senzatetto, stralunati, veri, comicamente commoventi, posano il loro sguardo sul mondo con un’umanità primitiva e incontaminata. Nicola Pannelli e Sergio Romano affiatati e bravi, sono da applausi.
“John e Joe è un testo molto poetico e struggente. È una specie di duetto lirico e clownesco ed è, pur nel pieno realismo delle varie situazioni, da considerarsi quasi un testo metaforico sul denaro, la povertà, l’amicizia e la solitudine, e sul fatto che essere primi o ultimi nella società, sembra che sia solo un problema di predestinazione” si legge nelle note di regia.
Incisivo anche il ricorso al suono del campanello e al rumore dei passi per segnalare l’arrivo del cameriere, che incute timore e tensione senza essere mai presente in scena.