Lo spettacolo si ispira all’eccezionale carriera del gruppo vocale “Diana Ross & The Supremes” che negli anni Sessanta raggiunse livelli strepitosi, con 12 singoli in vetta alla classifica Billboard Hot 100 e alla classifica R&B americane, tanto da competere con i Beatles.
Nel 1970 Diana Ross decide di staccarsi e intraprendere la carriera solista, mentre le Supremes continuano fino al 1977, riunendosi solo nel maggio 1983 in uno special televisivo per i 25 anni della Motown Records.
La loro smisurata popolarità fu un buon viatico verso il successo discografico dei successivi artisti afroamericani di rhythm and blues.
Amii Stewart è la stella di questa messinscena, ma non brilla da sola. Entra in sala dal fondo cantando e sale sul palcoscenico prendendo parte alla storia. Karen, Mary e Frenchie, ragazze di colore degli anni ’60, studiano in una scuola di musica di Detroit. Ambiziose e audaci, ottengono un’audizione dal manager di musica afroamericana Martin Thomas, che organizza un concerto a New York dove il presidente della Dolly Records le ingaggia.
Parte un vorticoso tour di concerti che fa decollare la carriera delle Dream Sisters, ospitate anche nel salotto televisivo di Alan Coleman.
Sono gli anni in cui bianchi e neri non godono negli Usa di pari diritti e perfino nel settore discografico si stilano due classifiche di vendita separate.
Diana Ross nel 1968, alla fine del concerto davanti ai reali inglesi denunciò questa disparità lesiva dei diritti umani, suscitando qualche strascico polemico per la circostanza in cui era stata espressa.
Anche Amii Stewart, interprete di Karen, solleva la questione afroamericana esistente nel suo paese in quegli anni, citando le parole della Ross.
Le altre “Sisters” sono Lucy Campeti e Francesca Haicha Tourè. grintose e talentuose, dalle straordinarie doti vocali, le cui potenti voci si alternano e si mescolano a quella di Amii, che mai le prevarica o assurge a primadonna.
Will Weldon Roberson ha una pronuncia italiana stentata nei pochi recitativi ma strappa gli applausi appena inizia a cantare nel ruolo di Martin Thomas, come anche Jean Michel Danquin nei panni di Roger Peterson. Sergio Muniz appare nel finale nel ruolo dell’anchorman televisivo Alan Coleman (americano dall’accento spagnolo).
Il regista Enzo Sanny dichiara di essersi entusiasmato leggendo il testo di Tiziana D’Anella e Lena Sarsen ma di aver incontrato difficoltà a mettere in scena una storia con una colonna sonora di brani che hanno caratterizzato un’epoca.
Suscita, infatti, qualche perplessità la definizione di musical per una messinscena in cui la trama è solo un pretesto e le musiche sono brani celeberrimi. Si potrebbe meglio classificare come un concerto-spettacolo.
L’orchestra di 12 elementi che suona dal vivo i pezzi adattati in chiave moderna al ritmo di R&B, soul e pop e ampi intermezzi di balletto trasmettono una carica impetuosa. Le scene di Andrea Bianchi sono potenziate dai giochi di luce di Massimo Tomasino che trasformano il palcoscenico in un caleidoscopio e proiettano sul pubblico ampi fasci incrociati di luce bianca.
I 26 brani, tutti in inglese, sono i più famosi degli anni in cui è ambientata la vicenda: Listen, Respect, Think, Proud Mary, I’m telling you, You can’t hurry love, I feel good, Stop! In the name of love, Soul man, Joyful Joyful (The Supremes, Aretha Franklin, Tina Turner, James Brown, Dreamgirls).
Il pubblico, raggiunto l’acme del coinvolgimento e dell’entusiasmo, nel finale è tutto in piedi, ballando tra le poltrone.