Un gioco di sospensione tra la vita e la morte. I contorni sfumano. Esserci o non esserci appare un problema che va ben oltre la fisicità, l’essere carne e sangue, il pulsare delle vene e il battito del cuore. Eppure è proprio attraverso il corpo che Emma Dante, nello spettacolo “Le sorelle Macaluso”, andato in scena all’Arena Del Sole di Bologna, fa parlare vivi e morti. Il ricordo diventa fisico e si manifesta in gesti ripetitivi, quasi ossessivi, proprio come ciò che avviene, molto spesso, nella mente di chi commemora affetti scomparsi. Il gesto si cristallizza e diventa sintesi e simbolo.
Tutto inizia dal buio. Un’oscurità densa di senso e di ombre. Ne emerge una figura illuminata da una luce flebile che inizia a danzare e a raccontare, attraverso le sue azioni, un dolore, un lutto, una mancanza. Un corpo nato dal buio per raccontare la morte. Un corpo mosso dalla pesantezza del passato e dalla leggiadria dell’effimero. Poi, dal boccascena emergono altre figure che s’intrecciano, s’incontrano e si perdono. Sono Le sorelle Macaluso, scopriremo più tardi, vestite a lutto, per celebrare la morte di una di esse. Una storia, quella messa in scena dalla regista siciliana, che parla di vita attraverso la morte e di morte attraverso la vita.
Sono tutte lì, di fronte al pubblico, e si raccontano, si mettono a nudo. Senza falsi pudori. Esposte agli sguardi. Inizia così, in pieno stile Grammelot, un gioco di risate, grugniti, fischi e ampi e grotteschi gesti corporei che solo dopo un po’ diventano linguaggio e sfociano nel dialetto siciliano, lingua scelta dalla regista per raccontare questa storia non solo come veicolo di tradizioni e valori, ma anche come idioma dal quale affiorano suoni e ritmi che si intersecano perfettamente alla trama coreografica messa in scena dagli attori attraverso il corpo. Una giornata al mare. Il viaggio nel caldo asfissiante. L’eccitazione della prima volta. Un gioco divertente per sfidarsi. E poi la morte, arrivata all’improvviso. Feroce. Spietata. I sensi di colpa e le rivendicazioni reciproche.
Dover continuare a vivere con un peso nel cuore. Sentirsi morti pur respirando. La rabbia di essere incompresa ed emarginata, come accade a Katia, la più scalmanata tra le sorelle, quella ribelle che urla e affoga il suo dolore nel cibo, o come succede a Lia, che a 42 anni è sola e vive la sua vita facendo la badante della sorella. Dover vivere con la propria identità negata, come Maria che voleva diventare una ballerina e invece è dovuta restare con la sua famiglia. E poi la morte, quella che spegne il battito del cuore, che rende il corpo inerme, che ferma il respiro ma che non cancella il nostro essere. Anzi, i morti, in questa cornice famigliare di Emma Dante sembrano essere più vivi dei vivi. Infatti Maria, solo nell’ultima scena, ormai morta, potrà finalmente indossare il tutù da ballerina e danzare. Danzare. Danzare.
Vincitore di due premi Ubu nel 2014 come “Miglior spettacolo dell’anno” e come “Miglior regia”, “Le sorelle Macaluso” è una pièce capace di penetrare nelle viscere dello spettatore, e lo fa con pochissimi orpelli. La scena è completamente spoglia e gli unici elementi che esulano dal corpo degli attori sono delle croci e cinque scudi con le spade poste sul proscenio. Tutto il resto lo fanno gli attori con grande abilità: immersi dentro un’assenza, devono attraversare con la loro carne ogni suggestione e ogni snodo drammatico.