Una crepa nel muro. Una crepa nel suono. Una crepa nei sentimenti. “Luci mie traditrici”, opera in due atti creata nel 1998 da Salvatore Sciarrino, andata in scena al Teatro Comunale di Bologna per la regia di Jürgen Flimm, vive nella rottura e in essa trova la sua linfa vitale. La storia narrata è molto semplice ma rappresentata in un modo innovativo, che risalta i tratti psicologici dei personaggi e mette lo spettatore in una condizione di inquietudine che lo trascina dentro il racconto. Tema centrale è l’amore, la sua inconsistenza, il suo essere effimero e fuggevole e anche, nonostante si voglia sempre cristallizzare e rendere eterno, caduco. I due protagonisti mettono in scena due modi di amare completamente diversi tra loro: Malaspina è un’amante passionale piena di slancio e di ardore; il suo consorte invece è un innamorato timoroso, insicuro, sofferente, con una grande paura di perdere l’oggetto della sua ossessione d’amore.
Il primo atto inizia senza musica, solo le voci dei due protagonisti che si giurano amore eterno. Ma un evento, la spina di una rosa che punge il dito di Malaspina, diventa foriero di una profonda incrinatura che la coppia non potrà risanare se non con la morte. Nella terza scena del primo atto, infatti, arriva un Ospite che fa vacillare la bella Malaspina, i suoi sentimenti sono messi a dura prova e lei non riesce a resistere alla passione per il misterioso personaggio. Ormai vinta dal nuovo, travolgente, amore, La Malaspina si lascia andare al desiderio sotto lo sguardo del Servo, che come un moderno Jago instilla il veleno della gelosia al suo consorte, portando verso un tragico epilogo la narrazione.
Quello che colpisce di quest’opera non è certo la trama, visto che tante volte la passione e gelosia amorosa è stata oggetto di opere liriche. Qui gli eventi sono incastonati in una dimensione di spazio e tempo dilatati, dando la possibilità allo spettatore di cogliere le sfumature inconsce degli eventi. Ogni azione lascia un’eco infinita e le sfumature, i sottintesi e le contraddizioni acquisiscono una densità di significato. Anche il vuoto, nella musica, nell’azione e nelle parole serve per creare un turbamento che cattura e seduce.
Ogni aspetto dell’allestimento del compositore siciliano è curato nel minimo dettaglio: una scenografia (curata da Annette Murschetz), semplice, elegante ed efficace, con un bellissimo gioco di luci che la tratteggia, si frantuma, pian piano, davanti agli occhi dello spettatore. Dalla condizione di ordine iniziale si passa, con il susseguirsi degli eventi e il tentennare dei sentimenti, al caos. Un disordine che non fa altro che punteggiare lo stato d’animo dei protagonisti e ampliare ancora di più la tensione scenica, che si respira in ogni dettaglio dell’opera. Una menzione particolare va fatta anche per i bellissimi costumi di Birgit Wentsch e le luci di Irene Selkas.
Anche il libretto, che prende spunto dal Tradimento per l’onore, dramma del XVII secolo attribuito a Giacinto Andrea Cicognini, è un distillato di parole intriso di giochi letterari e vive nella ripetizione ossessiva di alcune parole chiave, che gli interpreti reiterano attraverso il suono delle loro voci, portando all’esasperazione alcuni concetti come quello di amore, forza, violenza, morte. I dialoghi sembrano flussi di coscienza: l’interiorità dei personaggi prende forma attraverso le azioni degli altri in un gioco speculare e del doppio che porta a un crescente fermento emotivo. E poi c’è la musica, un paesaggio sonoro difficile da percorrere ma ugualmente ricco di suggestioni. L’orchestra, diretta dall’abile bacchetta di Marco Angius (grande conoscitore dell’opera di Sciarrino) riesce a riprodurre le implicazioni psicologiche che sottendono il suono stesso. Attraverso l’esecuzione di una partitura dove non esiste melodia, gli strumenti diventano ansimanti e la musica un organismo quasi vivente che respira, sbuffa (soffi degli ottoni) stride, cigola, cinguetta segnando così il passare del tempo e il mutare degli eventi con grande. Sciarrino, attraverso la sua ecologia del suono, coglie, anche con il suono, aspetti intimi e mette a nudo i personaggi portando lo spettatore a un altissimo livello di immedesimazione.
Ma se la musica è importante quello che ancor più conta nell’opera Luci mie traditrici sono le voci, intorno alle quali ruotano tutti gli altri suoni. La forza di quest’opera, infatti, risiede proprio nell’espressione del canto ed è per questo che un plauso va fatto agli interpreti: Katharina Kammerloher interpreta una Malaspina vibrante, come il desiderio che la strugge e che segnerà il suo destino; Otto Katzameier (Il Malaspina) mette in scena attraverso la sua voce tutto il suo dolore e il conflitto interiore con il quale sta lottando, che lo porterà ad uccidere l’oggetto del suo desiderio e il suo amante, mascherato, nell’ultimo atto, in un angelo della morte dalle ali nere che trascinerà con la seduzione le sue vittime nella loro dipartita; Lena Haselmann interpreta L’Ospite, con il suo fascino enigmatico ed equivoco la cui ambiguità è accentuata anche dal suo essere donna; infine Christian Oldenburg, il Servo traditore che metterà in azione la macchina sterminatrice.