Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nl mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: GIUGNO 2016
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UN MERCOLEDÌ DI MAGGIO
Genere: drammmatico
Regia: Vahid Jalilvand
Cast: Niki Karimi, Amir Aghaei, Shahrokh Forootanian, Vahid Jalilvand
Origine: Iran
Anno: 2015
In sala dal 23 giugno 2016
Il film: A fine giugno, è apparsa sugli schermi italiani – naturalmente poco pubblicizzata come quasi tutte le iniziative ‘diverse’ – una rassegna di quattro film iraniani che, oltre a far conoscere una cinematografia vivace e interessante sotto l’aspetto tecnico e artistico, fornisce uno spaccato della vita culturale e civile di un Paese spesso raccontato sulla base di preconcetti o dell’ossequio all’ufficialità. Premesso che i quattro registi non appartenendo all’establishment e trattando temi ‘scomodi’ per il potere religioso e civile non godono di particolari benemerenze e facilitazioni nella loro attività, è positivo il fatto che queste voci riescano a operare (anche se sempre a rischio di censura) e portare nel mondo la realtà iraniana. La difficile condizione della donna è una delle facce di questa quotidianità ed è il tema centrale dell’esordio nel lungometraggio di Jialilvand (come di tanto altro cinema iraniano). Un mercoledì di maggio (premio Interfilm a Venezia 2015) parla di due donne che rispondono, insieme a molti altri, a uno strano annuncio apparso su un giornale di Teheran: un certo Jalal vuole donare diecimila dollari a una persona bisognosa. Una somma rilevante che può risolvere molte situazioni rese ancor più drammatiche dalla povertà: è una competizione crudele che vede approdare alla ‘sfida’ finale due donne in condizioni oggettivamente difficili anche nella nostra cultura e società. Sertareh è una ragazza incinta abbandonata dal suo seduttore e quindi ripudiata della famiglia e bollata dalla società, mentre Leila (molto brava e coinvolgente Niki Karimi) – sposata a un uomo la cui vita dipende da una costosa operazione – deve riuscire a mantenere la famiglia e salvare il marito. Due situazioni di un quadro sociale la cui diffusione è poco gradita a un Potere che tende ad accreditare un’immagine internazionale di benessere diffuso come spesso accade alle nazioni in fase di sviluppo (gli anziani ricorderanno le polemiche e le accuse di danneggiare l’immagine del Paese rivolte a tanto cinema italiano negli anni cinquanta/sessanta). Un film bello (anche se con qualche flessione anche a livello di sceneggiatura) e interessante sotto l’aspetto documentaristico che fa ben sperare per il futuro registico di Jalilvand.
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NAHID
Genere: drammatico
Regia: Ida Panahandeh
Cast: Sareh Bayat, Pejman Bazeghi, Navid Mohammad Zadeh, Milad Houssein Pour
Origine: Iran
Anno: 2015
In sala dal 27 giugno 2016
Il film: secondo film della rassegna, anche Nahid (presentato nel 2015 a Cannes nella sezione Un Certain Regard) è un’opera sulla condizione della donna iraniana schiacciata tra una tradizione dura a modificarsi e un nuovo che avanza inesorabilmente se non altro per effetto (in questo caso positivo) di una globalizzazione che finisce con il coinvolgere tutte le popolazioni indipendentemente dalle strutture di potere e religiose. Il caso trattato dalla regista Panahandeh (da sempre attenta – anche per esperienze personali – al rapporto tra la donna e la società) in questo suo secondo film rivela una situazione tipica e in certa misura paradossale dell’Iran. Nahid è una giovane donna divorziata da un marito violento e tossicodipendente e vive sola con un figlio decenne affidatole nonostante la legge iraniana preveda sempre l’affido dei figli al padre. In cambio si è impegnata a non risposarsi. La situazione precipita quando Nahid s’innamora di un uomo che l’ama e vorrebbe sposarla. Quando non si ha il coraggio politico di superare leggi obsolete e ingiuste (il che non avviene solo in Iran), l’ingegno umano trova il modo di aggirarle e la paradossale soluzione iraniana è il ‘matrimonio temporaneo’ (sigheh) che per la sua temporaneità non è ufficialmente registrato sui documenti, rispettando formalmente i divieti esistenti. Espediente perfettamente legale, ma non accettato da un’ampia fascia della popolazione specie se vive lontana da Teheran, come Nahid che abita in un piccolo centro nel nord dell’Iran. La regista (che simboleggia con un cielo plumbeo lo stato d’animo dei protagonisti e di una parte della popolazione) ricostruisce molto bene con il movimento frenetico della macchina da presa la complessità di una società dalle molte contraddizioni e la nevrosi di chi è costretto a muoversi alla ricerca di soluzioni alle quotidiane ingiustizie in un labirinto con i muri di gomma. Ottima Sareh Bayat che fa vibrare le molteplici sfaccettature di Nahid e ne rende in modo coinvolgente paure, orgoglio, determinazione e la progressiva consapevolezza di dover lottare per difendere il proprio diritto di essere donna e madre senza dover rinunciare a uno dei due ruoli.
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A DRAGON ARRIVENS!
Genere: thriller fantasy
Regia: Mani Haghighi
Cast: Amir Jadidi, Kiana Tajammol, Homayoun Ghanizadeh, Ehsan Goudarzi, Nader Fallah
Origine: Iran
Anno: 2016
In sala dal 28 giugno 2016
Il film: terzo film della rassegna, il lungometraggio di Haghighi (nipote di Ebrahim Golestan che con le sue opere degli anni sessanta può essere ritenuto il padre del nuovo cinema iraniano) mostra – come il resto della rassegna – la vitalità di questa cinematografia, nonostante i condizionamenti di una censura molto presente. Haghighi ci regala un film affascinante, misterioso e per questo coinvolgente cui occorre abbandonarsi e non sforzarsi nel cercare conseguenzialità a tutti gli input che il regista semina: alla fine il cerchio quadra e ci si è divertiti. Presentato alla Berlinale 2016 (è stato l’ultimo film in concorso) non ha raccolto premi, ma ha mostrato grande vitalità dividendo critica e pubblico tra entusiasti e detrattori sconvolti per la pluralità di generi che s’intrecciano e sovrappongono e per l’incrociarsi della dimensione reale con quelle onirica, allegorica e metaforica. La vicenda è ambientata nell’isola di Qeshm nel golfo persico, dove il 22 gennaio 1965 (l’Iran era sotto il regime dello Scià) il giovane detective Babak Hafizi (ottima l’interpretazione di Amir Jadidi) approda con una sgargiante auto arancione per indagare sul suicidio di un detenuto politico ospite di un galeone del XVII secolo (in passato trasportato tra quelle rocce da schiavi) trasformato in carcere speciale. L’indagine condotta convince il detective che in realtà si tratta di un omicidio: opera di chi? Della Savak (i terribili servizi segreti dello Scià)? Vi è una relazione con l’assassinio di un ministro avvenuto pochi giorni prima a Teheran? Premesso che nessun ministro è mai stato assassinato in quel periodo, i riferimenti alla Savak costituiscono la lettura politica del film e la condanna di quel regime, ma può anche essere metafora di quello vigente. Il detective decide di far seppellire il detenuto nel cimitero vicino al galeone e assiste incredulo a quanto aveva preannunciato il becchino sulla base di un’antica leggenda: ogni sepoltura genera un terremoto. È la componente fantasy che s’innesta nel thriller. Babak deciso a scoprire il mistero torna di nascosto sull’isola accompagnato da un sismologo e da un tecnico del suono. A dragon arrives! è un film pieno di sorprese e colpi di scena in cui la realtà si mischia con la storia dell’Iran e la leggenda (lo spunto originario è stato il racconto di un fonico che caduto in un crepaccio durante le riprese di un documentario era riapparso dopo due giorni dicendo di aver incontrato un essere misterioso che gli aveva insegnato il tedesco. Il film, dai colori vivacissimi, ha il pregio di immagini di straordinaria bellezza, di un’affascinante e particolare colonna sonora di Christoph Rezai e di un’ottima caratterizzazione – cui corrisponde un notevole livello interpretativo – di tutti i personaggi. A dragon arrives! racconta una storia di ieri, ma resta il sospetto che attraverso un passato ormai innocuo il regista voglia parlare dell’oggi.
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A GIRL WALKS HOME ALONE AT NIGHT
Genere: horror western
Regia: Ana Lily Amirpour
Cast: Sheila Vand, Arash Marandi, Marshall Manes, Mozhan Marnò, Dominic Rains, Milad Eghbali
Origine: Usa/Iran
Anno: 2013
In sala dal 30 giugno 2016
Il film: quarta e ultima opera della rassegna, il film della Amirpour si differenzia dagli altri per diversi motivi a iniziare dalla regista che sebbene di origine iraniana è nata a Londra e da sempre vive negli Stati Uniti facendo quindi parte di quel gruppo di intellettuali che per diversi motivi lavorano e vivono fuori dall’Iran. Inoltre sebbene la protagonista sia una donna, non tratta la condizione femminile in Iran, filo conduttore degli altri, né si propone una valenza politica almeno riferita all’Iran. A girl walks home alone at night è un film originale e affascinante, girato in uno splendido bianco e nero (ricorda l’espressionismo) che rende i chiaroscuri del racconto e le sfumature dei sentimenti molto meglio di qualsiasi patinato colore e ricorda le opere cardine del neorealismo italiano o le foto dei grandi maestri come Kubrik e Doisneau. La Amirpour ha ambientato la sua opera prima in una immaginaria e un po’ surreale città iraniana di taglio petrolifero/industriale – in realtà una città petrolifera abbandonata (Taft in California) che con le sue strade deserte ben si prestava al desolato vagabondare notturno dei protagonisti – abitata da esistenze terrorizzate, drogati, spacciatori, ladri, prostitute: una comunità di anime perse. Da quest’umanità squallida emergono i due protagonisti ‘The girl’ (non se ne conosce il nome) una giovane donna vampira che si cela sotto un chador che diviene il nero mantello della sua specie e Arash (un ottimo Arash Marandi), un ragazzo che si aggira travestito da Dracula, rocchettaro e con un padre tossico. Tra i due (che comunicano tra loro con dischi e cassette quasi a indicare la solitudine contemporanea) nasce una storia d’amore che infrange il clima cupo di questa società di disperati in cui la girl-vampira preda solo tra chi non può più tornare in società. Sotto certi aspetti il film s’innesta nel romanticismo europeo da cui è stato originato il mito del vampirismo nella sua lettura originaria connessa al sogno dell’uomo di combattere la propria morte. La Amirpour ha realizzato un film cupo, surreale, avvolgente, affascinante e teso pur nella sua lentezza, perfetto nel racconto connotato da un’ironia dolce e melanconica, con una formidabile colonna sonora in cui si incrociano brani del miglior rock iraniano e musica western di Moricone e che si avvale della grande capacità recitativa di una Sheila Vand il cui volto espressivo si concentra nello sguardo con cui rende perfettamente la doppia natura della girl: brava ragazza (come appare nella bellissima danza iniziale dello specchio)/vampira assetata di sangue. A girl walks alone at night dopo essere stato presentato con successo al Sundance Festival del 2014 e al Festival del Cinema di Roma dello stesso anno ha raccolto premi ovunque è stato presentato.
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TARTARUGHE NINJA – FUORI DALL’OMBRA
Genere: avventura
Regia: David Green
Cast: Megan Fox, Will Arnett, Alan Ritchson, Noel Fisher, Pete Ploszek, Jeremy Howard, Stephen Amell, Tyler Perry, Brian Tee, Laura Linney, Sheamus, Gary Anthony Williams
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 7 luglio 2016
Il film: Secondo capitolo dopo il film del 2014 (Tartarughe Ninja) tratto dalle serie a fumetti create nel 1984 da Kevin Eastman e Peter Laird: la prima versione cinematografica risale al 1991 con Tartarughe Ninja – Il segreto di Ooze. Ovviamente protagoniste sono sempre le quattro ardimentose tartarughe Michelangelo, Donatello, Leonardo e Raffaello e la giornalista investigatrice April O’ Neil (la bella Megan Fox) cui si aggiunge Casey Jones (un vigilante mascherato). Le quattro ardimentose tartarughe, dopo aver salvato nel precedente film New York dalle mire di conquista del cattivo Shredder, si sono ritirate nell’ombra mangiando tranci dell’amatissima pizza tra una discussione e l’altra. Sono però costrette ad abbandonare questo felice tran tran da una nuova minaccia che grava non solo sulla Grande Mela, ma sull’intero mondo: Shredder riesce a evadere dal carcere grazie al Clan del piede che lo trasporta nello Spazio X, una dimensione spazio-temporale parallela, il cui leader Krang (un cervello parlante) si propone di conquistare il mondo. Per raggiungere lo scopo i due ‘cattivi’ ricorrono all’aiuto di uno scienziato pazzo (Baxter Stockman) e dei due manovali del crimine Bebop e Rocksteady (due animali mutanti che come Krang facevano parte delle storie a fumetti, ma non del primo film). È inutile rovinare sorprese e divertimento a grandi e piccoli raccontando il vivace susseguirsi di azioni (al limite della parodia che peraltro non oltrepassano mai) che conducono al prevedibile finale. Tartarughe Ninja- Fuori dall’ombra pur senza avere un intreccio rilevante è un film piacevole, ricco di scene d’azione chiare, semplici e veloci e che si avvale di un ottimo 3D (lontano da quegli eccessi che a volte lo caratterizzano) e mantiene quanto promette: un paio d’ore di divertimento sia per i più piccoli che non sono cresciuti con le strisce delle tartarughe ninja in tv, sia per chi le ha seguite a volte per anni e ne ritrova i protagonisti, anche se in versione meno dark e violenta. Questo secondo capitolo di quella che si preannuncia una nuova saga cinematografica (e l’oltre mezzo miliardo di incassi a livello mondiale del film precedente la giustifica largamente) è un equilibrato mix tra personaggi realizzati con la computer grafica e attori reali e rilegge i personaggi dei cartoons in chiave scanzonata come avviene con le quattro tartarughe alle prese con la transizione all’età adulta, fase simboleggiata dal liquido che trasforma in uomini gli animali antropomorfi, creando un conflitto di opinioni (che poi è in ciascuno in questa fase della vita) tra chi vorrebbe protrarre l’infanzia e chi ha fretta di uscirne.
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TOXIC JUNGLE
Genere: drammatico
Regia: Gianfranco Quattrini
Cast: Robertino Granados, Manuel Fanego, Emiliano Carrazon, Camila Perissé, Rafael Ferro, Santiago Pedrero, Andrea Prodan, Lucho Caceres, Manolo Rojas
Origine: Argentina, Perù, Italia
Anno: 2014
In sala dal 7 luglio 2016
Il film: secondo lungometraggio (il primo Chica Tu Madre era stato presentato a Venezia 2006 nelle Giornate degli Autori) di Gianfranco Quattrini – regista peruviano di origini italiane, studi statunitensi e formazione cinematografica argentina – Tocxic Jungle (quanto più bello il titolo originario Planta Madre!) racconta con un taglio originale la troppo breve storia dei fratelli Diamond e Nicky Santoro che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo conobbero un grande successo in Argentina e in tutto il Sud America con l’unico lp realizzato (il secondo fu interrotto dalla morte di Nicky) e furono definiti i pionieri del rock psichedelico argentino. Film seducente e complesso per l’intrecciarsi – spesso sovrapposto – di un continuo gioco tra il presente di Diamond/Federico, la memoria della giovinezza e del successo e le allucinazioni di Federico. Parallelamente si alternano generi cinematografici diversi: il road movie, il film biografico e quello psicologico senza privarsi della voglia di sperimentare. Il film inizia con Federico Santoro (Diamond è morto con Nicky e la voglia di fare musica), uomo stanco, solitario e irascibile, che dopo quarant’anni torna a Iquitos (maggior centro dell’Amazzonia peruviana) accettando l’invito di Pierina, l’ex fidanzata del fratello. La donna l’ha, infatti, coinvolto in una specie di serata d’onore sperando di farlo uscire dall’abulia che l’ha portato ad abbandonare la musica per il rimorso di aver lascito solo il fratello (a causa di contrasti sul secondo album) causandone la morte per droghe. Da un diario di appunti consegnatogli da Pierina, Federico ricostruisce il percorso che il fratello avrebbe voluto compiere lungo il Rio delle Amazzoni nel cuore della foresta pluviale per incontrare un famoso guaritore-sciamano (curandero nel linguaggio locale) identificato come l’unica possibile via di salvezza dal degrado fisico e ancor più psicologico causatogli dagli allucinogeni e dalle droghe. La guarigione sarebbe avvenuta attraverso il rito praticato dal curandero mentre ‘il paziente’ assume la bevanda allucinogena tratta dall’Ayahuasca (una pianta sacra, anzi la ‘Planta Madre’) utilizzata dalle popolazioni amazzoniche e andine a scopi magico-terapeutici: un viaggio interiore che cancella i limiti tra realtà e allucinazione e che ogni anno attrae a Iquitos persone da ogni parte del mondo. Federico – che era tornato a Iquitos per cercare di superare il dramma interiore che lo perseguita dalla morte del fratello – decide di compiere il viaggio sognato da Nicky per liberarsi dai fantasmi del passato e della sua giovinezza (duo Hermanos Santoro compreso). Inizia quindi il viaggio sul fiume accompagnato da Pierina e da Pato (suo attuale compagno) in fuga disperata dai trafficanti di cocaina con i quali era compromesso. Quattrini inserisce nel già complicato racconto del presente, del passato e delle allucinazioni dell’ormai anziano Federico Santoro una sub-vicenda noir che francamente appare inutile e scollegata e appesantisce la lettura di per sé non facile, ma coerente del racconto principale. Toxic Jungle è comunque un film da non farsi sfuggire non solo per la bellezza delle riprese nella foresta fluviale, lussureggiante e complessa, per mostrare le speranze, gli entusiasmi e il desiderio di viaggio iniziatico di parte della gioventù sudamericana degli anni sessanta e per la suggestiva colonna sonora, ma anche per essere un movie-road spirituale per rimuovere l’animo da quei macigni che dal passato condizionano presente e futuro. Un’indicazione, infine, per godere pienamente il film: occorre abbandonarsi al flusso delle immagini senza farsi condizionare dal voler connettere flashback e allucinazioni nei vari piani del racconto.
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CELL
Genere: horror
Regia: Tod Williams
Cast: John Cusack, Samuel L. Jackson, Isabelle Fuhrman, Stacy Keach, Griffin Freeman
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 14 luglio 2016
Il film: quest’ennesimo film tratto dalle opere del prolifico Stephen King (indiscusso primatista per numero di copie vendute in tutto il mondo), sebbene possa contare sulla collaborazione del romanziere nell’adattamento del romanzo apparso dieci anni fa, non raggiunge l’intensità per esempio di Shining, film rimasto nella storia del cinema. Dopo l’inizio formidabile che mostra con sequenze incisive lo scatenarsi del ‘virus’ che con rapidità impressionante trasforma gli uomini in esseri assetati di sangue, Cell – grazie anche alla distratta recitazione degli usualmente bravi John Cusack e Samuel L. Jackson (molto più intensi nella trasposizione di 1408, sempre di King) – s’affloscia nella solita routine dello sparuto gruppo di superstiti che cercano di salvare se stessi e gli altri. In un 1° ottobre di un anno imprecisato all’aeroporto di Boston, l’autore di graphic novel Clay Riddel (John Cusack) sta telefonando con il cellulare alla ex-moglie per comunicarle di aver venduto con successo una delle sue creazioni per un videogioco e soprattutto di desiderare rientrare in famiglia, ma non può completare il discorso perché il cellulare si scarica. È la sua salvezza poiché in quel momento parte il primo attacco del virus che colpisce tutti quelli che stanno telefonando. Clay riesce a sfuggire all’orda assetata di sangue rifugiandosi nella metropolitana dove conosce il conduttore Tom McCourt (Samuel L. Jackson) che attraverso i tunnel lo guida fino a casa in una città ormai preda di questi zombie da cellulare. Clay decide di tentare di raggiungere la famiglia in New Hampshire e a lui si uniscono oltre a Tom la giovane Alice (Isabelle Fuhrman) e altri occasionali compagni. Inutile dire che il viaggio è uno slalom, peraltro spesso non originale e noioso per mancanza di ritmo, tra gruppi di infettati telecomandati, tra loro tutti assolutamente eguali. Se Cell vuol essere una denuncia dell’omologazione che incombe sul genere umano, il messaggio non è per nulla originale ed è stato trattato con ben diversa incisività, così come di altro spessore sono gli zombie ‘tradizionali’ di Romero. Forse il romanzo di King (pubblicato nel 2006) aveva qualche sfumatura profetica prevedendo una specie di apocalisse dovuta all’uso eccessivo dei ‘cellulari’, ma dieci anni dopo – si stima che nel mondo vi siano sei bilioni di utenti di cellulari (quasi l’80% della popolazione coinvolta) ed è quotidiano il loro rapporto anche distorto con l’uomo – la ‘profezia’ pare del tutto fuori tempo. Se è in atto (e lo è) un processo di omologazione dell’uomo a modelli preconfezionati ‘altrove’, il cellulare non è certamente lo strumento di condizionamento, ma semmai di attivazione di cervelli già ‘lavati’. E su quest’aspetto si è avuta occasione di vedere sequenze ben più incisive.
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THE LEGEND OF TARZAN
Genere: avventura
Regia: David Yates
Cast: Alexander Skarsgard, Margot Robbie, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, John Hurt, Djimon Hounsou, Ella Purnell
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 14 luglio 2016
Il film: riemerge dall’oblio in cui l’avevano confinato i supereroi di ultima generazione Tarzan, l’uomo simbolo dell’avventura esotica creato nel 1912 dalla penna di Edgar Rice Burroughs (pubblicato nell’ottobre dello stesso anno sulla rivista The All-Story) e oggetto di infinite versioni cinematografiche (almeno una cinquantina, di cui otto mute tra il 1918 e il 1929) e alcune parodistiche come Tototarzan (1950, regia di Mario Mattioli). Il primo film Tarzan of the Apes (Elmo Lincoln il primo Tarzan) risale al 1918 ed è un adattamento dell’omonimo romanzo (primo dei 24 volumi dedicatigli dal suo creatore), mentre occorrerà attendere il 1999 per il debutto nell’animazione (Tarzan, regia di Kevin Lima e Chris Buck). Nella concezione di Burroughs, Tarzan è il bambino selvaggio, allevato nella giungla dalle scimmie, che tornato nella cosiddetta società civile ne rifiuta il gioco delle false convenzioni e ritorna nella foresta come eroe e difensore dei giusti. Tale schema si ritrova anche nel film di David Yates (approdato a Tarzan dopo aver diretto gli ultimi quattro film della saga di Harry Potter) anche se il nostro eroe, ormai sulla trentina, con l’amata moglie Jane vive melanconicamente in Inghilterra ove ha rivendicato il titolo di Lord Greystoke come John Clayton III. La giungla sembra lontana dalla loro vita borghese quando Lord Greystoke è convocato dal Primo Ministro inglese che vorrebbe inviarlo in Congo come emissario del Parlamento. Inizialmente Lord Greystoke rifiuta considerando chiuso il periodo africano, ma George Washington Williams (il simpatico e bravo Samuel L. Jackson), rappresentante del Governo degli Stati Uniti, riesce a farlo recedere dalla decisione illustrandogli l’ipotesi del suo Governo che le magniloquenti opere realizzate da Re Leopoldo II del Belgio (in quel periodo il Congo era una colonia belga) servano a coprire e realizzare un enorme traffico di schiavi volto a rimpinguare le casse di Leopoldo tragicamente vuote. Il piano è stato concepito dal capitano Leon Rom (interpretato da Christoph Waltz), ideatore della strategia del re belga, e contempla anche una parte che riguarda Tarzan: Rom si è accordato con Mbonga (capo della tribù Mbolongta) per consegnargli l’odiato Tarzan contro un grande quantitativo di diamanti. Lord Greystoke ritornato in Congo insieme alla moglie deve smettere i panni borghesi e velocemente tornare a essere Tarzan riprendendo contatto con la foresta e i suoi abitanti compresi i gorilla con cui era cresciuto e gli animali amici come i leoni. Occorre dire che il Tarzan di Yates è abbastanza vicino a come lo aveva immaginato Burroughs: un uomo colto capace di esprimersi correttamente in più lingue e non quel bipede incapace di rapportarsi con gli altri esseri umani come mostrato in tante occasioni. Paradossalmente la scarsa espressività dello statuario Alexander Skarsgård (ventiduesimo attore a impersonare l’eroe della giungla: il primatista è stato Johnny Weissmuller con dodici film tra il 1932 e il 1948) tende alla tradizione nonostante una sceneggiatura che abbina alle classiche avventure (non mancano i volteggi con le liane) una componente ideologica che si sviluppa su due piani: l’alleanza tra i neri d’America e nativi africani e attribuire a Tarzan il compito di portare un messaggio di giustizia, armonia e rispetto della natura. Anche la figura di Jane (un’ottima e sanguigna Margot Robbie) è ben diversa dall’essere la spaurita e passiva compagna di Tarzan di tanti film, o una moglie remissiva (è lei che impone la sua presenza in Africa contro la volontà del marito) o una prigioniera che attende di essere liberata: contrasta validamente il cattivo Leon Rom. Yates e la Robbie hanno dato vita a un personaggio moderno e interessante. Tra le molte altre figure spicca per attualità quella del banchiere senza scrupoli e coraggio: un certo mondo non cambia mai. Il film propone scene molto spettacolari in cui gli animali sono integralmente realizzati a computer con un grado di realismo tale da far invidia a qualsiasi vera giungla. The Legend of Tarzan pur con qualche difetto e qualche scena un po’ confusa (anche se molto spettacolare) nel finale è un film godibile sia dai cultori del ‘mitico’ personaggio (ha 114 anni ma non li dimostra!) sia da chi vi si avvicina per la prima volta.
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UNA SPIA E MEZZO
Genere: commedia d’azione
Regia: Rawson Marshall Thurber
Cast: Dwayne ‘The Rock’ Johnson, Kevin Hart, Amy Ryan, Ike Barinholtz, Aaron Paul, Megan Park, Ryan Hansen, Danielle Nicolet
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 14 luglio 2016
Il film: la tragedia per un comico è non far ridere. È quello che, purtroppo accade al film di Thurber il cui punto debole è una sceneggiatura che non cerca il minimo spunto originale rispetto all’usuale repertorio del ‘buddy movie’. Due compagni si scuola si ritrovano grazie ai social dopo vent’anni, ma ovviamente rispetto a quei tempi le situazioni sono radicalmente cambiate. Calvin Joyner (Kevin Hart) era uno studente brillante e popolarissimo, mentre Bob Stone (Dwayne ‘The Rock’ Johnson) un ragazzo sovrappeso e, quindi, oggetto di bullismo da parte dei compagni con l’eccezione di Calvin che lo difendeva. La vita spesso disperde i compagni di scuola e quando si ritrovano le sorprese sono all’ordine del giorno: chi era irriso diviene un leader e viceversa. Così vent’anni dopo Calvin è uno sbiadito e frustrato ragioniere, mentre Bob è divenuto un importante agente della Cia. A portare un po’ di vitalità a Calvin ci pensa Bob coinvolgendolo nella ricerca di chi ha violato i computer del Governo. Le premesse per un film ironico e divertente ci sarebbero tutte, peccato che gli attori forse perché privi di battute valide si limitino a riproporre l’usuale repertorio di smorfie e il film sia sconnesso e privo di mordente a conferma che senza idee non si va lontano.
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STAR TREK BEYOND
Genere: fantasy
Regia: Justin Lin
Cast: Chris Pine, Zachary Quinto, Idris Elba, Zoe Saldana, Simon Pegg, Karl Urban, Sofia Boutella, Anton Yelchin, John Cho, Joseph Gatt
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 21 luglio 2016
Il film: era l’8 settembre 1966 quando la statunitense NBC lanciò il primo episodio di Star Trek, serie di avventure ambientate nello spazio profondo e caratterizzate da filosofia pacifista. L’ideatore Gene Roddenberry (El Paso/Texas 1921 – S. Monica/California 1991), dopo essere stato aviatore militare durante il secondo conflitto mondiale e civile negli anni successivi e prima di dedicarsi all’attività di sceneggiatore e produttore televisivo, ha fatto parte (fino al 1956) del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Autore delle sceneggiature di popolari serie degli anni cinquanta ha creato Star Trek (anzi Wagon Train to the Stars, primo nome della trasmissione ideata) nel 1964 con l’idea si trovare una sintesi tra le due serie fantascientifiche Flash Gordon e Buck Rogers. L’intuizione di Roddenberry è stata una fantascienza adatta anche agli adulti. La sua visione di un’umanità futura pacifica e unita e personaggi come Spock crearono, però, molti dubbi nei produttori per cui fu solo nel 1966 che la serie decollò con un programma di 79 episodi in tre anni, ma dopo gli alti indici iniziali, gli ascolti calarono mettendo in dubbio l’opportunità di produrre nuove puntate. Probabilmente pochi previdero il futuro e duraturo successo della serie: Star Trek Beyond è il film del cinquantenario. Fino a oggi si possono contare sei serie televisive (di cui una di cartoni animati) e tredici lungometraggi. Il successo è dovuto alla particolare impostazione basata su un forte messaggio filosofico e su tecnologie futuribili, ma realizzabili come è accaduto per molti oggetti che non esistevano nel momento in cui furono immaginati per lo schermo mentre oggi sono di uso comune: basti pensare ai telefoni satellitari, ai tablet Pc o ai ‘pannelli dei parametri vitali’ oggi presenti in qualsiasi reparto di terapia intensiva. Altre tecnologie fondamentali come il ‘teletrasporto quantistico’ e i ‘viaggi più veloci della luce’ sono, invece, oggetto di approfondite ricerche scientifiche. La nave stellare Enterprise può viaggiare in sistemi stellari sconosciuti grazie alla ‘propulsione a curvatura’ che – superando i limiti della teoria della relatività di Einstein – permette di raggiungere velocità di crociera superiori alla luce (la spiegazione parascientifica è interessante, ma troppo lunga in questa sede). La connessione tra questi aspetti fantascientifici (ma non irrealizzabili in un futuro più o meno lontano) e l’aspetto filosofico/sociale (Star Trek è stato definito, forse con un po’ di enfasi, l’erede delle migliori tradizioni culturali e intellettuali degli ultimi 250 anni) hanno determinato il fenomeno di migliaia di club di estimatori il cui primo convegno si è svolto nel 1972 a New York. Nella sua storia cinquantennale Star Trek ha affrontato molti temi importanti sotto gli aspetti sociale, politico, etico e filosofico resi più accettabili al grande pubblico dalla dimensione fantastica del racconto. Protagonisti sono esseri umani appartenenti alla ‘Federazione dei pianeti uniti’ (nata dopo la terza guerra mondiale riunisce sotto un unico governo molti popoli di sistemi stellari diversi) che ha risolto grazie alla contaminazione con popolazioni extraterrestri più progredite eticamente e tecnologicamente tutti i principali problemi della Terra: dalla fame alle discriminazioni etniche, alle divisioni politiche, ai problemi energetici e ambientali….Star Trek Beyond racconta le vicende dell’Enterprise partita tre anni prima (il film era Into Darkness-Star Trek) per una missione quinquennale di esplorazione dello spazio profondo “alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima” (come recita lo slogan-mantra che ha accompagnato la serie fin dal suo esordio). L’astronave è attirata in un’imboscata (una finta richiesta di soccorso), attaccata da misteriosi alieni e semidistrutta: l’equipaggio riesce a salvarsi, ma si trova in un pianeta sconosciuto in una nebulosa fuori dalle rotte usuali. Autore dell’aggressione è Krall, intelligente e malvagio leader che crede nella guerra continua e vuol impadronirsi del cosmo e distruggere la Federazione e i suoi principi di pace e convivenza. Prima tappa è l’annientamento di una stazione spaziale molto popolata. I nostri eroi devono quindi lottare ad armi impari (non sanno, nemmeno, dove sono) per salvare se stessi, la stazione in pericolo e il cosmo. Justin Lin (debuttante in Star Trek, ma con alle spalle quattro Fast & Furious) ha avuto l’idea geniale di dividere in coppie separate l’equipaggio, che pertanto vive vicende tra loro diverse, e di introdurre il personaggio di Jaylah, una nativa del luogo che sarà fondamentale per la sopravvivenza del gruppo. Le varie vicende si sviluppano in modo parallelo e si alternano tenendo sempre viva l’attenzione. I fedeli estimatori di Star Trek si rassicurino: Lin non tradisce lo spirito tradizionale della serie con riprese che puntino più sull’azione che sul pensiero (vi è solo una corsa in moto che non disturba e si inserisce perfettamente nella narrazione). Com’è tradizione, l’intelligenza, il coraggio e l’unità d’intenti hanno la meglio e i nostri eroi riescono a fuggire dal pianeta avverso inseguiti dalle astronavi di Krall e qui il film che è sempre pervaso da un sottile umorismo ha un’altra trovata geniale: i nostri eroi riescono a mandare in crisi la comunicazione “cybertelepatica” degli inseguitori sparando nello spazio musica rock a tutto volume. Star Trek Beyond è un ottimo film, mai banale e che non tradisce le caratteristiche del format, ovviamente con gli ammodernamenti tecnologici e fantascientifici resi necessari dall’evoluzione dei tempi, ma tenendo ben salda la barra dell’etica pacifista. Non delude gli aficionados e avvince in modo intelligente chi si avvicina per la prima volta alla creatura di Roddemberry: un’esperienza da compiere.
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GHOSTBUSTERS
Genere: commedia soprannaturale
Regia: Paul Feig
Cast: Melissa Mccarthy, Kristen Wiig, Kate Mckinnon, Leslie Jones, Andy Garcia, Neil Casey, Chris Hemsworth, Bill Murray
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 28 luglio 2016
Il film: quando era apparso sugli schermi nel 1984, Ghostbusters – diretto da Ivan Reitman – per la sua anarchia liberatoria non solo aveva registrato un notevole successo di pubblico, ma era divenuto un cult movie e come tale intoccabile per buona parte dei fan. Già la notizia che era in cantiere un reboot del film aveva suscitato perplessità, ma quando è stato reso noto che l’intera squadra acchiappafantasmi sarebbe stata al femminile i fans hanno scatenato una violentissima polemica (costruita sul nulla) che ha mostrato la sua inconsistenza non appena il lavoro di Paul Feig è apparso sugli schermi. Il film, infatti, non ha perso nessuna delle caratteristiche che ne avevano decretato il grande successo di pubblico, acquisendo inoltre i valori della comicità al femminile che per il regista è “meno aggressiva, più leggera e rilassante” di quella maschile. Feig, aiutato anche dalla decisione di avvalersi di un cast femminile (peraltro il miglior quartetto di comici in attività negli Usa) ha realizzato una storia completamente diversa – pur rispettando lo spirito originario volto a ridicolizzare la staticità mentale e la miopia di un certo establishment scientifico e politico (sono molti – forse anche troppi – i richiami e i cammei dedicati al film di Reitman) – trattando i problemi secondo la sensibilità e l’ottica delle donne. La giovane scienziata Erin Gilbert (una Kristen Wiig dalla comicità misurata e sottile, quasi timida) – ha ottenuto da poco un incarico nella prestigiosa Columbia University per insegnare una materia scientifica – è licenziata in tronco quando inopinatamente appare sul mercato la ristampa di un volume da lei scritto con la vulcanica Abby Yates (Melissa McCarthy), un’amica di gioventù con cui condivideva la passione per il sovrannaturale e la frequentazione degli spiriti. Divertentissime le raffigurazioni dell’ipocrita dirigenza dell’Università e dell’incontro in cui, in modo mellifluo e ‘austero’ il Rettore annuncia alla Gilbert il licenziamento per frequentazioni e idee antiscientifiche: a prescindere dai fantasmi, lo spirito di molta comunità scientifica non è né lontano né diverso da quello che condannò Galileo. Alla povera Gilbert che vede infrangere anni di studi, di lavoro e di sogni sugli scogli dell’ottusità umana (nel film maschile, nella realtà anche femminile) non resta che tornare a collaborare con l’antica amica, cercando una giusta rivincita. Nel frattempo alla Abby si è unita la dirompente Jillian Holtzmann (una strepitosa Kate McKinnon cui spetta la palma per l’interpretazione più divertente e trascinante), una scienziata freak che tra le varie ‘folli’ invenzioni ha creato un dispositivo capace di imprigionare gli ectoplasmi. Completa il gruppo Patty Tolan (Leslie Jones) una coriacea e saggia dipendente della metropolitana (le vicende si svolgono a New York) di cui conosce alla perfezione tutti i meandri. Il quartetto circondato dallo scetticismo generale – che spesso diventa vera e propria ostilità – deve affrontare il previsto (ma non creduto) attacco alla metropoli da parte di migliaia di fantasmi coordinati da un misterioso capo che più che il potere cerca una rivincita personale all’emarginazione sociale dovuta più alla sua inconsistenza umana che alla cattiveria degli altri. Divertenti le sequenze in cui il sindaco e lo staff cercano da un lato di appropriarsi dei primi successi delle nostre Ghostbusters e dall’altro di sminuirne la portata cercando di nascondere la verità ai cittadini e di depistarli con una serie di informazioni false o travisate. Si ride, ma poi coglie un senso di amarezza perché quello di cui ridiamo è spesso la realtà quotidiana che in buona fede abbiamo contribuito a creare. Tra le sequenze più esilaranti quelle del colloquio per l’assunzione del segretario (un dinoccolato, bello e ingenuo fino ad apparire ottuso Chris Hemsworth) e le schermaglie verbali tra le quattro attrici. Spettacolari e ovviamente numerosissimi gli effetti speciali, ma a questi ormai il cinema ci ha abituati, mentre intelligenza, ironia, misura e capacità di far riflettere con una risata non sono frequenti.
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LA NOTTE DEL GIUDIZIO – ELECTION YEAR
Genere: fantapolitica/horror
Regia: James De Monaco
Cast: Elizabeth Mitchell, Frank Grillo, Mykelti Williamson, Edwin Hodge, Betty Gabriel, Kyle Secor, Joseph Julian Soria, Mykelti Williamson
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 28 luglio 2016
Il film: terzo capitolo del fortunato franchise iniziato nel 2013 The Purge (Lo sfogo) che con i primi due film (La notte del giudizio e Anarchia- La notte del giudizio) ha incassato nel mondo oltre 200 milioni di dollari avendone investito solo 12. Un affare e c’è da chiedersi le ragioni di questo successo: forse vedere sullo schermo il desiderio di una violenza e di una vendetta impunite che troppo spesso albergano nell’animo umano? L’idea base del franchise è, infatti, una notte all’anno in cui dall’imbrunire alle sette del mattino è permesso ogni delitto, compreso l’omicidio. Queste dodici ore di violenze impunite sono state proclamate da un futuro governo degli Stati Uniti espresso dai Nuovi Fondatori D’America, un raggruppamento politico-religioso che ha conquistato il potere sulla base di un programma ultrareazionario. Nello spettatore sorge il dubbio se De Monaco (regista e sceneggiatore dei tre i film della saga) abbia voluto portare sullo schermo (specialmente in questo La notte del giudizio – Election Year), ovviamente estremizzandoli all’ennesima potenza, i pericoli per una civile convivenza derivabili dallo spirito di rivalsa alla Presidenza Obama di una minoranza bianca (mentalmente discendente del Ku Klux Klan) che ha trovato espressione politico-religiosa nel Tea Party, nell’estrema destra repubblicana e nella candidatura di Donald Trump alle prossime elezioni (il capo dei Nuovi Fondatori gli rassomiglia) o semplicemente abbia ‘strizzato l’occhio’ alle contrapposizioni politiche ambientando il suo horror fantapolitico in quest’anno elettorale. Il film, infatti, vede la senatrice Charlene Roan (una convincente Elizabeth Mitchell particolarmente somigliante a Hillary Clinton) candidata, con buone possibilità di vittoria, del Partito Democratico contro i Nuovi Fondatori. Il programma della Roan prevede l’abolizione del giorno dello ‘Sfogo’: ne resta ancora un’edizione e i Nuovi Fondatori la vogliono utilizzare per eliminare in modo rituale la pericolosa avversaria. A difendere la Roan da pericoli e tradimenti che la costringono ad abbandonare il proprio rifugio e rischiare la vita per strada vi è il capo della sua sicurezza (l’ex sergente di polizia Leo Barnes, interpretato con professionalità da Frank Grillo) cui si unisce un’organizzazione di afroamericani che vuol utilizzare questa notte particolare contro i Nuovi Fondatori. Il film che mantiene sempre un buon ritmo, alterna scene d’azione ad altre di violenza e horror, ma non approfondisce le tematiche politiche e sociali su cui si basa il racconto e non sfrutta temi che pure accenna come quello del ‘turismo del crimine’ che risolve con l’inquadratura di una fugace intervista a un turista richiamato dall’evento.
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SKIPTRACE – MISSIONE HONG KONG
Genere: azione
Regia: Renny Harlin
Cast: Jackie Chan, Jhonny Knoxville, Bing-bing Fan, Svitlana Zavialova, Michael Wong
Origine: Honh Kong/Cina/Usa
Anno: 2015
In sala dal 28 luglio 2016
Il film: Skiptrace è la classica opera basata sulla forzata convivenza e collaborazione di una coppia ‘antipodale’: Bernie Black (Jackie Chan) e Connor Watts (Johnny Knoxville) sono i due simpatici ed esilaranti protagonisti di quest’avventura che si sviluppa attraverso gli esotici e a volte fantastici panorami degli altipiani della Mongolia, dei fiumi dello Yangste, delle montagne della catena Huangshuan, del deserto del Gobi e, ovviamente, di Hong Kong. Black è un onesto detective (sulla via dell’emarginazione per la sua intransigenza) che da anni cerca disperatamente e vanamente di catturare Victor Wong, il big boss della locale organizzazione criminale – che può contare su ampie protezioni e collusioni, anche nell’ambito della polizia – cui tra l’altro addebita la morte dell’amato capo. Connor è invece uno scanzonato avventuriero americano, giocatore d’azzardo, che ha avuto la sventura di assistere a un omicidio in cui è coinvolto Wong. La cattura del boss più che una missione è divenuta per Bernie un’ossessione cui ha sacrificato anche la vita privata: l’unico affetto è per la figlioccia (la figlia del suo defunto capo). Il ritmo veloce, la molteplicità dei personaggi (poliziotti di Hong Kong a volte onesti solo apparentemente, terribili mafiosi russi che poi si rivelano di buon cuore, trafficanti cinesi di ogni tipo, donne che sembrano fatali…) in cui nessuno è come appare… nemmeno i morti e il gioco delle sorprese, compresa quella finale, tengono sempre desta l’attenzione dello spettatore assicurandogli quasi due ore di divertimento semplice e genuino. Una raccomandazione: non alzarsi all’apparire dei titoli di coda perché Jackie Chan – che oltre a essere attore, esperto in arti marziali e cantante è anche uno stuntmen – mostra con fierezza di non aver fatto ricorso a controfigure anche nei passaggi più impegnativi.