Cristobal Jodorowsky è tornato in Italia con il suo “Psicoteatro”, uno spettacolo terapeutico che, ormai da anni, porta in giro per il mondo, affrontando vari aspetti delle fragilità umane unendo il suo percorso formativo come attore, allo studio della psicoterapia e delle pratiche energetiche ereditato, in parte, dal padre Alejandro Jodorowsky, fondatore della psicomagia, e poi approfondito nel corso degli anni e delle sue esperienze che lo hanno portato a contatto con sciamani e guaritori. Con l’ultimo spettacolo approdato al Teatro Dehon di Bologna, “E se guarissimo la nostra immagine del diavolo?!”, Jodorowsky mette in scena un argomento tabù, almeno nella nostra cultura.
In che modo, ancora oggi, si percepisce il Diavolo, personaggio basilare sia nella religione che nella mitologia? Esso rappresenta il negativo, il torbido, l’osceno. In genere è un’entità da evitare perché produce sfortuna, malattia o peggio il male e la morte. Il Diavolo viene spesso associato all’oscurità e allo sconosciuto e si alimenta dei nostri timori, rappresentando l’inferno in contrapposizione con il paradiso, l’aulico, il sublime. Ma questo modo di vedere il diavolo, non è altro che la psicosi che l’uomo ha di dividere, scindere, categorizzare: così il male e il bene, il divino e il demoniaco non sono altro che categorie con le quali ci proteggiamo e mistifichiamo la realtà, impedendo al processo trasformativo che è in noi di attivarsi.
Cristobal Jodorosky affronta il diavolo da un punto di vista interno, psicologico. E lo fa cercando di capire dove l’ego si ossida. Ognuno ha dentro una ferita che genera anche l’identità e molto spesso crea psicosi, compulsioni, nevrosi. Una lacerazione che fa parte del percorso di vita e che si fa molta fatica ad abbandonare perché, senza di essa, ci si sente persi, quasi senza identità. Questo è “l’ego ossidato”: sebbene alcune situazioni si vorrebbero superare, alcune volte, inconsciamente, si fa di tutto perché quella ferita non si chiuda. Ed è lì, secondo l’attore e tarologo messicano, che si annida il diavolo. Lì, dove si mettono in atto le nostre difese per uscire dall’abito distruttivo che ci siamo messi addosso. Il vero inferno è non voler progredire, non trovare il coraggio e la forza di trasformare la nostra vita, di provare a farne ciò che più desideriamo.
Attraverso il suo one-man show Jodorowsky intrattiene il pubblico con grande abilità, facendolo ridere, interagendo con esso e portandolo infine a una riflessione profonda. Sullo sfondo campeggia una grande carta, il Tarocco di Marsiglia che segnala il Diavolo (Le Diable, XV) come l’arcano della passione: passione amorosa, passione creativa. Una carta, racconta il tarologo, che contiene tutta la potenza occulta dell’incosciente umano, sia positivo che negativo. È anche la carta della tentazione: una chiamata alla ricerca del tesoro occulto, dell’immortalità e dell’energia potente che contiene lo psichismo, necessaria per qualsiasi opera umana e per qualsiasi processo trasformativo.
E allora, invece di appellarsi al dualismo (buono, cattivo), bisogna interrogare la nostra interiorità, perché è lì che si annida la chiave per aprire la cassaforte. E la chiave, in fondo, siamo noi, individui fallibili in quanto umani, ma che possiamo aprirci al mondo e viverlo appieno, non senza paure, perché questo è illusorio, ma affrontandole giorno per giorno, guardandole in faccia senza nascondersi, con sincerità e coraggio. Perché, come insegna anche la fisica quantistica: “tutto ti aiuta se ti vuoi veramente trasformare”.
Altro momento molto interessante, come di consueto negli spettacoli di psicoteatro, è stata l’estrazione a sorte di alcune persone del pubblico (che avevano lasciato il loro nominativo) che hanno avuto una consulta di tarocchi sul palcoscenico da parte di Cristobal Jodorowsky.
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