Vittorio Biagi è considerato “il rappresentante più valido e geniale della nuova espressione coreutica italiana”. Ha iniziato gli studi di danza classica a Genova e in seguito alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala di Milano in cui viene nominato nel Corpo di Ballo “Solista”. A diciotto anni viene scritturato da Maurice Béjart nel Ballet du XXe siècle a Bruxelles dove rimarrà dal 1959 al 1966. Nel 1967-68 è danseur étoile nel Balletto dell’Opéra di Parigi. Nel 1969 si trasferisce a Lione, dove crea il “Ballet de Lyon”, che dirige per sette anni. Tra le sue più importanti coreografie è giusto ricordare: Pulsazione, Settima sinfonia di Beethoven, Romeo e Giulietta, Alexander Niewsky, Scythian Suite, Le sacre du printemps, Renard, Les noces, La Sinfonia fantastica di Berlioz eccetera. Nel 1977 ritorna in Italia chiamato dall’A.T.E.R. per formare la prima compagnia di balletto indipendente dagli enti lirici. Nel 1980 fonda “Danza Prospettiva”. Dal 1983 al 1986 è direttore artistico del corpo di Ballo del Teatro Massimo di Palermo. Lavora per la RAI in importanti programmi televisivi con la regia di Antonello Falqui e di Michele Guardì. Nel 1990 fonda la sua Compagnia con il “Balletto di Roma”. Regolarmente viene invitato a rappresentare la danza italiana al “Jazz World Congress” di Chicago, viene invitato in molti teatri e compagnie di balletto nel mondo. Con la sua compagnia “Vittorio Biagi” ha portato in scena: oltre 300 balletti/creazioni, 35 opere liriche, 25 spettacoli, 12 operette, 2 commedie musicali.
Gentile Maestro Biagi, mi racconta come è iniziata questa sua splendida passione nel mondo della danza?
Sono nato ballerino! Vengo alla luce nel 1941 e nel 1944 ci fu la Liberazione d’Italia. Ero un bambino molto piccolo, il quarto di quattro figli tutti maschi, mio padre era farmacista, ci trovavamo in una località della Toscana all’interno, c’era la guerra, lo sfollamento… ben lontano dal mondo del Teatro! Mi vengono alla memoria flashback in cui ero proprio “il ballerino”; ad esempio a quattro anni, tutto ricciolino, ballavo dinnanzi alla gente ed a un certo momento arrivano le bombe, mi ritrovo da solo, piango, mia madre mi soccorre, mi prende e mi porta via: ecco cose di questo genere. Poi nella mia adolescenza la stessa cosa si ripete: alle elementari o alle medie, il maestro usciva… “mi devo assentare un attimo” diceva “Biagi pensaci tu”. Ed io mi alzavo sul banco, cominciavo a fare un po’ di Tip-Tap, imitavo quello che vedevo nei film di Fred Astaire o Gene Kelly e tutti i miei amici e compagni urlavano “Bravo, bravo…”. Poi a otto anni ho vinto un premio di Charleston e in seguito un altro di Rock and Roll. Ero uno dei ballerini di Rock and Roll più conosciuti e celebri a Genova… avevo più o meno dai 10 ai 14 anni.
Quali sono stati i “primi passi” verso la formazione?
Un giorno incontrai un genovese come me cioè, pardon io sono nato a Viareggio, sono genovese di adozione perché nel 1947 mio padre si spostò in una farmacia a Genova. Incontrai un ballerino, ma io non lo sapevo… era Paolo Bortoluzzi. Vede, signor Olivieri, forse uno dei più grandi ballerini italiani, sicuramente della mia generazione. Paolo mi disse: “Lo sai Vittorio che balli bene, perché non fai il classico?”, “Il classico? Ma no, ci mancherebbe altro. Il classico non mi interessa” questa fu la risposta. Poi si avvicinò un altro personaggio, sempre verso i 13/14 anni, un amico che tra l’altro nel mondo della danza è stato anche lui importante in quanto ricopriva la carica di sindacalista per la televisione, Domenico del Prete, molto più grande di me, anche lui genovese, che mi disse: “Ma Vittorio perché non fai il classico?” Insistette, andai alle lezioni di classico, in via Luccoli, una scuola di danza diretta da Ugo Dell’Ara e da Mario Porcile, così feci le mie prime lezioni, mi piacque e poi la maestra, che era una maestra della scuola di Cecchetti, Maria Molina (un’allieva di Cecchetti), studiava non sui libri del maestro ma lavorava proprio con Enrico Cecchetti che ai quei tempi era alla Scala. Succede che mi guarda, visiona le proporzioni e afferma “Sì, sì tu sei dotato, bene”. Io rimasi colpito. Lei continuò “gambe lunghe, bei piedi, collo del piede perfetto, andeor”. Iniziai a studiare danza classica ma io imparavo più velocemente degli altri e il mio corpo si adattava meglio e così ebbe inizio la mia carriera. Quindi subito dopo entrai nel piccolo gruppo di Ugo Dell’Ara insieme ad Olga Amati, Paolo Bortoluzzi, Riccardo Duse e altri ballerini italiani. Facemmo un po’ di spettacoli in giro, studiando tutti i giorni e a un certo momento mi consigliarono: “Vai alla Scala, è un discorso proprio di serietà, di professione, di vita”. E bene, andai alla Scala. Mi presero subito, feci l’audizione e mi misero – io che avevo due o tre anni di danza alle spalle – subito all’ottavo corso e quindi imparai il mestiere. Lavoravo dalla mattina alla sera con impegno; poi un uomo di mare come me, nato a Viareggio trovarsi in questa città milanese con sempre il brutto tempo, mi spingeva a rimanere dalla mattina alla sera in teatro. E non dimentichi che il mio teatro, il teatro alla Scala dell’epoca era popolato da nomi come la Tebaldi, la Callas, Di Stefano, Corelli, grandi registi e direttori d’orchestra… c’erano i più grandi cantanti del mondo e io sempre in mezzo alle quinte a guardare, a vedere, a curiosare. È questo che fa la vita di un artista, ecco perché poi sono diventato quello che sono diventato… mi occupavo di teatro, teatro teatro. Tecnica, teatro, esperienza, musica e a un certo punto ho fatto delle cose molto importanti già come Solista, ma ero nella Scuola e quindi avevo un cachet supplementare e mi facevano danzare in qualità di Solista, in alcuni ruoli. Tra l’altro mi sono creato evidentemente molti nemici, come succede spesso dentro questi teatri… Un giovane che ha grandi speranze all’epoca si cercava di frenarlo, per tenerlo sotto controllo. Detto questo cosa succede? che a un certo momento c’è una novità: una compagnia di uno sconosciuto che si chiamava Béjart, ma sconosciuto proprio, con un gruppo di ballerini viene a Milano, fa lo spettacolo, vado a vederlo con altri amici danzatori, tra l’altro con un ballerino jugoslavo che conosceva alcuni danzatori della compagnia, vediamo lo spettacolo all’Orfeo e mi chiesero al termine dello spettacolo “Ti interesserebbe entrare in questa compagnia?” Io lì per lì rimasi un po’ così stordito, perché ero votato al classico, anche se nasco come ballerino moderno. Però risposi: “Eh sì vediamo”… in poche parole per farla breve solo dopo tre mesi ero già nella compagnia di Béjart. Accompagno Paolo Bortoluzzi, come amico a Bruxelles, dove era stato preso tramite audizione… Béjart mi vede, partecipo alle lezioni con la Compagnia e alla fine mi guarda e mi dice: “Se tu vuoi rimanere in Compagnia c’è un posto per te”. Immagini la mia contentezza… rimasi e non son più tornato in Italia. Sono partito nel 1960 e sono rientrato in Italia con Aterballetto nel 1978. Lontano dal bel paese per diciotto anni, non parlavo più l’italiano. Ricordo qualche ballerino dell’epoca che lavorava con me e che diceva: “Biagi non parla l’italiano, parla solo il francese”.
Bene appunto, una volta rientrato in Italia viene chiamato dall’A.T.E.R. per formare una compagnia di balletto. Cosa l’aveva stuzzicata in questo innovativo progetto?
L’Aterballetto fu interessato non soltanto dalla mia carriera internazionale e dalla mia dinamica, ma a tutto ciò che rappresentavo negli anni Settanta in Francia. Feci la creazione della “Divina Commedia” di Dante, un evento mondiale: musica elettronica, uno spettacolo di tre ore, un lavoro addirittura finanziato dal Ministero della Cultura francese. Vede l’assurdità: un toscano, ballerino italiano, fa la “Divina Commedia” e c’è il Ministero della Cultura francese che lo sponsorizza. Questo lo vede in Italia? Bah? Sarebbe un po’ difficile. Detto questo, allora furono interessati per questa cosa e vennero a vedere lo spettacolo i dirigenti dell’Ater: siamo nel 1975 addirittura. Vennero e mi dissero “Vorremmo portarlo in Italia, straordinario!” Era una produzione grandissima, aveva più di ottanta persone in scena, c’erano dei ponti che sparivano e salivano… Conservo tante fotografie della “Divina Commedia”. Quindi si cominciò a parlare di questa cosa in Italia e dell’artista Vittorio Biagi e del lavoro che stava svolgendo in Francia. Di conseguenza mi fecero questa proposta di venire in Italia e di fondare l’Aterballetto, la prima compagnia di balletto indipendente da ambienti lirici, perché avevo un’esperienza ormai più che decennale alla direzione nell’ambito estero, soprattutto una costruttiva conoscenza. I dirigenti dissero: “Beh, è giovane e in più ha tanta esperienza, approfittiamo e montiamolo con Biagi e così nacque l’Aterballetto”. Una compagnia formata da quaranta ballerini e un repertorio internazionale. Ma cosa succede? Che giustamente non potevo vivere a Reggio Emilia, essendo abituato alle grandi capitali europee, pur facendo un lavoro bellissimo… ringrazierò per sempre l’Aterballetto di avermi dato questa opportunità, ma non potevo vivere a Reggio Emilia come persona, sotto il profilo umano e non lavorativo. Non ero abituato, era una cittadina troppo piccola… Avevo 36/37 anni, un uomo in piena forza e quindi scelsi di abbandonare l’Aterballetto, lo lasciai proprio io, diedi le dimissioni e andai a Roma e fondai una compagnia: la “Danza Prospettiva”. Anche lì ottenni una sovvenzione, grazie al nome che portavo e cominciò la vita di questa nuova Compagnia. Nel frattempo in tutto questo mio peregrinare tra una compagnia e l’altra, sono stato invitato dai più grandi teatri del mondo. Ad esempio mentre ero alla direzione del “Ballet de Lyon” mi staccavo per due mesi e andavo a Buenos Aires per poi recarmi all’Opera in Grecia, negli Stati Uniti… spostamenti per 15 o 20 giorni; lasciavo l’assistente e continuavo così. In sostanza il mio lavoro non era soltanto il rimanere in un luogo fisso ma viaggiare da una realtà coreutica all’altra.
Mi parli di “Danza Prospettiva” ma anche dell’indimenticato Antonello Falqui e della direzione del Corpo di Ballo a Teatro Massimo di Palermo…
Cosa successe? Nel 1980 il critico di danza Vittoria Ottolenghi mi propose di lavorare: mi chiamò e mi fece conoscere Antonello Falqui. Un grande regista della televisione italiana, il quale mi diede molto spazio per il balletto in tv. Faccio con lui diversi show, importantissimi, il classico show del sabato sera con enormi mezzi. Per esempio creai la “Settima Sinfonia” di Beethoven, feci dodici balletti a serata… allestimenti fastosi e lunghi in termini di minutaggio. Non due tre stacchetti ma degli autentici balletti come si preparavano in Teatro. E quindi con la televisione lavorai, in alternanza alla compagnia “Danza prospettiva” che proseguiva le tournée, producendo lavori assai interessanti con la RAI. Poi ci fu anche lì un episodio, sempre per prendere un po’ d’aria… mi proposero di assumere la direzione, nel 1983, del Teatro Massimo di Palermo. C’erano delle buone situazioni, preziose possibilità di fare splendide creazioni e quindi lasciai Roma come residenza e andavo e venivo dalla capitale a Palermo. C’erano i ballerini della mia compagnia “Danza Prospettiva” che potevano lavorare con me, quindi riuscivamo a svolgere entrambe le mansioni, durante la pausa al Teatro Massimo lavoravamo sui pezzi della mia Compagnia. Assunta la direzione a Palermo montai dei balletti veramente molto pregevoli, grazie anche all’appoggio della Direzione del Teatro che mi seguiva con un occhio di riguardo artisticamente e con grandi collaboratori… feci una serata tutta dedicata a Rossini ma anche la creazione dei Carmina Burana oppure il Requiem di Verdi, uno spettacolo su Leonardo Da Vinci “Leonardo e il potere dell’uomo” che fu ripreso da RAI 2; un grande balletto in omaggio al genio vinciano che avevo già imbastito al Balletto di Lione. E anche a Palermo dopo tre anni, cosa successe? Successe che tutte queste mie bellissime creazioni risultarono poi un’esclusiva a loro unico appannaggio, perché il sindacato non permetteva di far partire la compagnia di balletto del teatro Massimo in giro per il mondo. Ho ricevuto varie proposte di tournée ma non erano seguite dalla direzione e allora per l’ennesima volta, il sottoscritto, disse: “Arrivederci”. Lasciai Palermo per la ragione che non potevo vivere in una realtà che non produceva “movimento culturale” come invece avvenne a Lione o all’Aterballetto. In compenso conservo meravigliosi ricordi del periodo palermitano; splendida città la quale mi permetteva di nutrire la mia concentrazione artistica favorendo le condizioni lavorative. Ad un certo momento però sentii che era giunto il momento di cambiare visto che ebbi la possibilità di rientrare a Roma e riprendere totalmente in mano la mia compagnia “Danza Prospettiva”. Così ripartii, dall’86 all’89, anche con la televisione. Feci dei programmi bellissimi con Antonello Falqui, ad esempio, “Come Alice” avendo nuovamente la possibilità di portare la “mia” danza al grande pubblico alternando il mio lavoro anche di coreografo internazionale.
Come procedette poi il suo viaggio, Maestro, nel mondo della danza? Nel frattempo fu anche fondatore e direttore del “Nuovo Balletto di Roma”…
Esattamente… arrivò poi l’incontro con Bartolomei e Zappolini, avevano una compagnia al balletto di Roma e decidemmo di metterci insieme, assunsi la direzione artistica e cominciai questa collaborazione. Tutto questo perché? Per poter permettere ai ballerini di avere una continuità lavorativa… insieme abbiamo unito le forze e abbiamo lavorato in sinergia. Questa collaborazione andò avanti quattro anni, cambiai il nome e misi: “Nuovo balletto di Roma” assumendomi la direzione artistica. Abbiamo portato in scena eccellenti creazioni, tournée in Italia e all’estero attraverso i Festival e quindi è nata la “Vita di Strauss”. La collaborazione proseguì per 4/5 anni poi io ripresi la mia autonomia con “Danza Prospettiva”. Siamo nel 1995, allestisco un omaggio a Paolo Bortoluzzi… il mio grande e indimenticato amico Paolo: volli ricordarlo con la creazione dal titolo “Recordare” e poi ci fu Julio Bocca che mi chiese i diritti per “Pulsazione” da affidare alla sua Compagnia facendo così il giro del mondo sempre con enormi successi. In seguito collaborai con Alicia Alonso. Gli dedicai un balletto, “La morte di Cleopatra” e poi montai anche “Pulsazione” con gli straordinari danzatori di questa sua Compagnia forgiata da una nobile tecnica… Insomma belle e numerose soddisfazioni.
Com’è stato l’incontro artistico e creativo con il grande Julio Bocca?
Guardi le racconto un aneddoto: era il 1983 e mi trovavo al teatro di Buenos Aires per montare “Romeo e Giulietta” di Prokovief. Prima di fare il casting, andai in sala, ma mi recai anche allo spettacolo di un altro balletto in cartellone al Teatro e notai un giovanissimo ballerino: Julio Bocca. Diciassette anni, allievo della scuola, molto più bravo degli altri. Allora andai in direzione e dissi: “Guardate io per il ruolo di Mercuzio voglio prendere questo ballerino, come fece Balanchine con me quando avevo la sua stessa età”. Mi risposero: “No, perché questo è un allievo”, e io “Non fa nulla se è un allievo, lo prendo lo stesso perché ho visto che ha una straordinaria tecnica e lo voglio in questo ruolo”… Accettarono la mia proposta e feci la creazione di “Romeo e Giulietta” con Julio Bocca per la prima volta in un ruolo importante da protagonista. Quando tornai lo volli per il Teatro Massimo di Palermo e me lo portai appresso come accadde altre volte con i ballerini del Teatro Colon. In poche parole mi scrisse un telegramma la madre in spagnolo dicendo: “No per favore, non me lo porti via questo giovane adolescente, è ancora troppo giovane” e allora lasciai perdere. Con Julio Bocca è rimasto comunque un bellissimo contatto e quando lui ha avuto la Compagnia nel 1992/93 mi chiamò e gli montai “Pulsazione” che portò in giro per tutto il mondo. Questo è un piccolo ma significativo aneddoto. Adesso ci sentiamo spesso, è direttore del Balletto Nazionale dell’Uruguay e molto probabilmente ci sarà un’altra collaborazione artistica tra noi due.
Fra le varie tecniche e discipline che ha studiato a quale si sente più affine e perché?
Beh sicuramente sono nato Jazz però ho lavorato talmente tanto sul classico che guardando le mie coreografie si può notare un filo che lega questi stili con la peculiarità d’essere più musicale che tecnico… diciamo sicuramente Jazz.
Tra i tanti balletti narrativi quale ama particolarmente?
Deve sapere che io ne ho fatti tanti e diversi tra loro. Posso affermare di essere l’unico ad aver creato “Alexander Niewsky”… l’ho allestito in un contesto assolutamente astratto!
Tra i coreografi contemporanei della scena attuale a chi va un suo applauso?
Qui entriamo in un campo difficile. Guardi è semplice, mi piace dei coreografi quelli che hanno qualcosa da dire, dal punto di vista proprio di intenzioni. Certamente non posso non citare Kylián, Nacho Duato, ma anche tanti altri… Non dei “Passettari” come dicono i romani!!! Io ne vedo anche fin troppi di passettari, si fanno passi passi passi e non c’è cultura dietro, non c’è stile e soprattutto dimenticano completamente la musica. Quindi non parliamo di chi lavora in questo modo, parliamo di quelli che sono coreografi interessanti. Ecco credo di aver fatto alcuni nomi tra cui anche John Neumaier (siamo della stessa generazione, un’annata buona!)
Ritorniamo alla Scala di Milano?
Per quello che riguarda la Scala, sì ho fatto dei ruoli da Solista prima di andarmene ma io ero allievo, però mi hanno scelto proprio i coreografi. Cioè Balanchine, quando venne in sala prove io ero il quinto sostituto, uno studente là in fondo alla sala e il grande maestro disse: “Voglio lui”. La direzione evidentemente replicò: “Ma come, insomma è un allievo”. E lui “Sì, sì è lui che lo può fare”. Immagini gli sguardi, i ballerini cosa hanno pensato di me… Poi succede la stessa cosa Massine, però in un altro caso. Massine stava creando un nuovo balletto, io mi mettevo dietro e imparavo tutto. Anzi ero molto amico di Amedeo Amodio, insieme eravamo due ballerini che non smettevamo di lavorare, dietro gli altri, da soli, due ragazzi entusiasti. Ci fu un ballerino, uno dei Solisti, allora nominato proprio Solista dal Teatro che si fece male alla gamba in “Romeo e Giulietta” e tutti erano sconvolti, dicevano: “Ma come si fa? Ma chi conosce questo ruolo?” Io mi feci avanti e dissi: “Io”. “Ma come?” “Sì, sì io lo conosco”. “Facci vedere”. Mi misi in posizione, eseguii subito i passi. “Ah benissimo!!!” Secondo ruolo da Solista e quindi mi diedero un supplemento di cachet, ma io ero allievo però ebbi i manifesti in qualità di Solista: Vittorio Biagi insieme a Liliana Cosi, a Carla Fracci, a Mario Pistoni… chiaro però che non ero nominato ufficialmente! Ora le cose sono cambiate ma in quei tempi essere nominato in un teatro lirico significava essere già vecchi, non muoversi più… Ad esempio oggi grandi Star hanno ricevuto la nomina appena maggiorenni, mentre in quel periodo era impossibile. Se fossi rimasto alla Scala sarei ammuffito in mezzo al Corpo di Ballo, a parte il fatto che con il mio temperamento non avrei resistito e me ne sarei andato via prima come ho sempre fatto. In poche parole, accadeva che malgrado lei ballasse benissimo le davano un supplemento di paga ma non la nominavano Solista. Quindi feci delle cose alla Scala e poi ci fu questa occasione di andare, come le ho detto precedentemente, a Bruxelles!
Quale balletto ricorda con più affetto, tra le sue interpretazioni, sul palcoscenico della Scala?
Sì, mi ricordo come professionista sicuramente “Il Palazzo di Cristallo” coreografato da George Balanchine, un’esperienza molto forte ed emotiva e i “Fantasmi al Grand Hotel” di Léonide Massine.
Ritorniamo a Maurice Béjart, lavorare con lui com’è stato?
Sono arrivato al Ballet du XXe siècle a Bruxelles insieme a Bortoluzzi, entrambi eravamo a conoscenza che questo giovane e sconosciuto coreografo, di 35/36 anni, che in precedenza aveva fatto alcune cose, ma soprattutto aveva avuto l’importante occasione di formare una compagnia internazionale in Belgio scritturando così diversi ballerini da ogni parte del mondo. Béjart parlò con il direttore del Teatro Reale della Monnaie ed ebbe l’intuizione e l’occasione straordinaria di poter far scritturare per due anni, Assaf Messerer il più grande maestro del Bolshoi di Mosca. Con Paolo Bortoluzzi eravamo a Cagliari, e venuti a sapere di questa presenza affermammo: “Ma qui c’è il più grande maestro del mondo!!!” Avevo 18 anni, Paolo ne aveva 21 e siamo partiti subito. Ecco perché siamo andati da Béjart. Poi evidentemente quando abbiamo conosciuto il personaggio, chapeau!! ci siamo innamorati nel senso artistico della persona, del suo modo di lavorare, della disciplina, il vero lavoro di creazione sulle basi classiche… Ecco come successe la cosa. Quindi ai Ballet du XXe siècle abbiamo avuto la fortuna di studiare con il più grande maestro del teatro moscovita, e per due o tre anni mi sono costruito una tecnica veramente ad altissimi livelli. Infatti poi sono stato Étoile all’Opéra di Parigi come Guest Artist, salti, giri, pirouette, fisico… tutto insomma!! Dopo due anni di studi con Messarer sono seguiti tre anni con Victor Zowskic, Tatiana Grantzeva… dalla grande Scuola del Bolshoi alla grande Scuola di Leningrado. Un’occasione di formazione unica al mondo, quotidianamente straordinari maestri unitamente alle creazioni del geniale Béjart. Questa è stata la mia peculiarità nell’essermi trasferito a Bruxelles. E poi che successe? Nel 1964 Béjart mi domandò di creare io una coreografia. Dissi: “Ma io? come faccio maestro?” e lui “No, no io sento che tu hai del talento. Tu fammi una proposta e tu farai una coreografia per la Compagnia”. Non era mai successo. Io sono un percussionista Jazz, prima ancora di fare il ballerino, e quindi la prima cosa che ho fatto, mi sono buttato su questo genere di musica; però un jazz particolare, nato sulle basi classiche… Così nacque “Jazz impressions” il 17 aprile del 1964 andò in scena al Teatro Reale della Monnaie. Un successo grandissimo, nessuno se l’aspettava. Béjart però lo sapeva. Il direttore del Teatro mi disse: “Ma è una cosa… rimase senza parole”. E da quel momento lì, non fui soltanto un ballerino perché annualmente il Teatro Reale della Monnaie con Maurice Béjart, mi richiedeva un balletto. Feci poi la mia seconda creazione: “L’apres-midi d’un faune” di Claude Debussy, una coreografia sul “Faust” nel Cirque Royal de Bruxelles, e in seguito a questi eventi, la mia vita cambiò e fu straordinaria. Poi che successe? Grazie alle mie innate doti fisiche e ad una tecnica eccellente potei avere l’ambizione di lasciare la compagnia di Maurice Béjart.
Dopo questa esperienza ha avuto l’onore di essere nominato Étoile al Balletto dell’Opéra di Parigi. Che aria si respirava, artisticamente e culturalmente parlando, in quel periodo a Parigi in uno dei massimi templi della danza?
Andavo spesso a Parigi con la compagnia di Béjart, i direttori del teatro dell’Opera mi conoscevano, mi vedevano e mi fecero la proposta di diventare Guest Artist, attenzione Guest Artist! Quindi non un ballerino étoile perché non mi ero formato scalando la gerarchia del Corpo di Ballo e soprattutto non ero “assunto fisso” all’interno del Teatro. Venendo da fuori ebbi un contratto per tre anni come Guest Artist. Dovevo eseguire venti spettacoli l’anno, però io ne facevo otto al mese perché una volta entrato all’Opéra e all’Opéra Comique presi parte a tante produzioni come “Schiaccianoci”, la creazione del “Ballo dei cadetti” coreografia di David Lichine nel celebre ruolo del Tamburino, inoltre “La Lecon” di Flemming Flindt e il classico passo a due “Infiorata a Genzano” nello stile di August Bournonville per il quale lavorai assai bene sui dettagli grazie al maestro danese Harald Lander. Mi feci questa esperienza triennale in veste di Étoile che mi permise di danzare con grandi ballerine di classe internazionale, come Claude Bessy, Josette Amiel, Noelle Pontois e tante altre. Essendo già coreografo e non impiegato stabilmente ricoprii il ruolo di ospite. Una volta avute le date di Parigi io potevo poi organizzarmi nel resto del tempo con altre mie coreografie da portare per esempio ad Amsterdam o in Svizzera. E fare delle coreografie per la TV francese e spagnola continuando così sia a danzare sia a creare balletti. Siamo nel ‘68 e potrei dire che sono uno dei beneficiari di quell’anno, perché in Francia il ‘68 fu molto importante, sicuramente più incisivo sulla vita politica del paese, più che in Italia, ed io ero il ballerino di punta del momento al quale diedero la possibilità di essere direttore e creatore di una nuova compagnia, che in provincia non esisteva, il “Ballet de Lyon”. Ed io fui il primo a fondare una compagnia formata da 42 elementi, con assoluta libertà artistica e creativa… una novità nella provincia francese. E questo fatto fu di esempio per Strasburgo, due anni dopo per Marsiglia con la compagnia diretta da Roland Petit e altre città francesi. A quel tempo nelle cittadine di provincia, come Bordeaux, i teatri possedevano un piccolo corpo di ballo per portare in scena solo le opere liriche e le operette. Quindi fui l’innovatore e in questo caso sono ben contento di poterlo dire a lei, signor Olivieri, affinché venga divulgato al grande pubblico. Ancora oggi tanti mi dimostrano affetto e gratitudine e sovente mi dicono “Grazie a lei maestro”. Ho fatto perfino aumentare le paghe dei ballerini, questo è un dettaglio non da poco. Per riprendere il discorso di prima, vado a Lione nel 1969 e ci rimango per sette anni, creo più di sessanta balletti, di cui alcuni tra i più importanti della mia vita come “Romeo e Giulietta”, il celeberrimo “Pulsazione” di cui presi cura anche della parte musicale. Oggi questa creazione è in repertorio anche presso il Balletto Nazionale di Cuba, al Teatro di Buenos Aires, ad Amburgo eccetera. Ricordo che in Francia vennero tante persone ad ammirare “questo giovane italiano” tra cui anche Paolo Grassi (collaboratore e amico di Giorgio Strehler) che era Sovrintendente alla Scala di Milano, il quale nel 1976/77 mi chiese di creare le coreografie per lo spettacolo d’inaugurazione al Teatro alla Scala, con la regia di Giorgio Strehler nell’opera lirica “Macbeth” di Giuseppe Verdi. Insomma cominciavano i contatti con l’Italia ma così un po’ in penombra, cose a distanza… Lavoravo a Lione ma ero sempre ricercato pure dall’Italia grazie anche all’indimenticata Vittoria Ottolenghi che parlava molto bene di me… durante una mia tournée in Italia ebbe modo di scrivere: “Ah ma questo italiano, ma che bravo, perché non viene in Italia a lavorare?”… insomma si cominciò a parlare di me.
Tra le Sue svariate esperienze ha collaborato anche con grandi nomi internazionali del balletto…
Certo ho lavorato con tutti, anche come ballerino e coreografo. Sa con chi non ho lavorato? Con Jerome Robbins, mi è sempre piaciuto, anzi, addirittura nei primi balletti dicevano che ero l’erede di Robbins non di Béjart. Non me l’ha detto mai nessuno all’estero che potevo essere l’erede di Béjart, solo in Italia lo dicevano, ma io mi sentivo sicuramente l’erede di Robbins perché c’è il Jazz dentro di me e anche una parte religiosa.
Signor Biagi, c’è un nesso tra danza e religione?
Per parlare dei balletti religiosi ricordo di aver fatto per la prima volta integralmente la “Passione di San Giovanni” danzata, siamo nel 1973. Se lei si informa, signor Olivieri, vedrà che non c’era nessuno che aveva mai fatto una cosa del genere. In passato era stata messa in scena qualche Cantata ma tutto lo spettacolo per intero con orchestra, coro, solisti e una scenografia straordinaria è stato ad appannaggio mio. Ricordo in scena un’autostrada che passava attraverso il palcoscenico dell’Opéra, buttava giù palazzo Pitti e il cantiere dell’autostrada era il Calvario… Le volevo ricordare che io ho fatto, forse sono l’unico coreografo al mondo che ha creato più di quattro Requiem tradotti in coreografie: Il Requiem senza parole di Alberto Bruni Tedeschi, il Requiem di Berlioz (grazie a questo balletto entrai in qualità di direttore al Balletto di Lione perché quando lo montai, nell’estate del 1969, i direttori rimasero talmente scioccati, affascinati che dissero: “No, lei deve rimanere qui con noi, creare una sua compagnia”). Era un Requiem con 300 coristi, 80 ballerini… Un allestimento colossale!!! In questo deserto della danza italiana, ho 75 anni, non ho mai smesso di fare balletti per sessant’anni ma sono un po’ distaccato da questa danza italiana. Ma non lo deve prendere come un discorso così… non ho nessuna frustrazione, al contrario perché ho fatto delle cose talmente alte, talmente grandi, talmente di livello che certe volte ci penso e dico: “Ma in Italia siamo proprio lontano mille luci da quello che ho creato io”. Detto questo poi ho fatto il Requiem di Mozart e poi il Requiem di Verdi… una creazione mondiale per il Teatro Massimo di Palermo nel 1985. Dei Requiem in danza uno più grande dell’altro… Sono molto legato a questi titoli e lei mi fa proprio una domanda sulla danza religiosa. La danza è un rituale, un rituale pulito, sincero, profondo e non estetico. A tal proposito vorrei soffermarmi con una riflessione: “Questi ballerini di arte contemporanea che oggigiorno creano balletti sono solo delle opere narcisistiche su di loro: ci si butta, ci si alza, ci si butta per terra, ci si rialza, ci si guarda… non c’è l’ascolto della musica, non c’è un linguaggio! Un linguaggio che non deve essere necessariamente di moda ma dev’essere un tuo personale linguaggio. Io attualmente non vedo nessuno all’altezza!”
Come ha vissuto la sua popolarità?
Guardi io non sono popolare. Sì, sono conosciuto dai grandi, sono sulle enciclopedie, sono annoverato come un personaggio storico della danza ma sa benissimo che qui in Italia bisogna fare la televisione per essere popolari. Certamente ho allestito i più bei spettacoli di danza, nei quali mi sono divertito tantissimo, con Antonello Falqui e con lunghissimi mesi di prove per raggiungere l’eccellenza e la perfezione. Tante trasmissioni televisive ma comunque sempre con basi classiche accademiche seppur moderne e di matrice Jazz.
Carissimo Maestro, ha festeggiato 50 anni di coreografia, di spettacolo, di danza e balletto! Una grande carriera di successo… Attualmente a cosa si sta dedicando?
Da cinque anni mi occupo con una società privata unitamente ai miei ballerini… una società di produzione che opera all’estero. Quindi proprio quello che mi si addice. Con la Fondazione Pavarotti è nato nel 2013 lo spettacolo “Bel canto”. Io ho curato la regia, la coreografia, nella prima versione e poi abbiamo debuttato a New York a fine 2013. Questa produzione la riprenderemo presto… L’abbiamo già portata a Parigi almeno tre volte. Ritorneremo ancora nella capitale francese da ottobre, novembre e dicembre. Poi faremo una decina di spettacoli in Germania, a Berlino, Monaco e Amburgo… poi ancora trentadue spettacoli in Francia per concludere. Con questa casa di produzione ho altri due progetti, quindi io continuo a lavorare, ma ancora una volta all’estero!!!