C’era un volta… comincia così, come nella migliore tradizione fiabesca, Un ballo in maschera di Verdi in scena al Teatro dell’Opera di Roma (fino al 30 ottobre): la favola e la storia rappresentano in effetti le cifre stilistiche più peculiari dell’allestimento realizzato in collaborazione con il teatro di Malmo con la regia di Leo Muscato (rivedremo il suo Rigoletto il prossimo anno) che chiude la stagione 2015/2016 del Costanzi.
Al pubblico capitolino è stata offerta una pregevolissima e poco rappresentata versione “svedese” del dramma, la più affascinante forse con la ricollocazione della storia a Stoccolma e i nomi dei personaggi cambiati: si tratta della prima versione (poi censurata) creata da Verdi-Somma dopo la commissione del San Carlo di Napoli nel 1859 e ambientata nella corte svedese del 1792 raccontando ll’omicidio (reale, ma proposto in forma romanzata) di re Gustavo III di Svezia.
Ambientata nella corte svedese in piena epoca napoleonica, la messinscena di Muscato lascia coesistere con ottimo equilibrio la realtà e la fiaba con una corte giocosa e sfarzosa (con venature di inquietudine che trapelano dalle trame dei congiurati), ma viva e carica di emozioni e sentimenti.
Da una parte la ricostruzione storica di un Settecento armonioso, colorato ed evocativo, corretto, ma non pedante fra felughe, mostrine, cappelli, divise e abiti stile impero offerti dai costumi di Silvia Aymonino e dalle scene (spesso con scorci angolari) di Federica Parolini che riproducono con cura minuziosa il palazzo reale di Stoccolma (fra carta da parati lavorata, lunghi divani, porte dorate con stucchi, quadri con i membri della dinastia svedese).
Dall’altra, la chiara dimensione fiabesca enfatizzata dall’uso efficacissimo delle luci di Alessandro Verazzi (molto drammatiche, significanti o irreali) soprattutto nella dimora della strega o nella bellissima scena del bosco.
Partendo da un approccio quasi fiabesco con tutti gli elementi archetipici della favola ben noti a Propp, dal Re alla sua amata, dal suo migliore amico al paggio, dalla strega cattiva al castello fino al bosco, assistiamo a un fiaba storica con tanto di profezia dell’indovina che predice la morte di Gustavo per mano del suo migliore amico. E così sarà: il re sarà assassinato (il regista si concede qualche libertà optando per un colpo di pistola) da Anckarström per gelosia dopo aver scoperto la relazione fra sua moglie Amelia e il sovrano.
Forte l’impatto visivo del ballo finale in maschera, clou della vicenda (con il Coro diretto da Roberto Gabbiani): bella la scena con porte dorate, stucchi e lampadari in un ballo che viene ripensato all’insegna dell’espressionismo con il bianco e nero degli abiti e con l’irruzione di coloratissimi mimi (quasi fluorescenti) che irrompono in scena, ma appaiono poco coerenti le coreografie, un po’ frivole e poco pertinenti all’epoca e tutto sommato alla drammaturgia.
Nel primo cast in scena (se ne sono alternati due) spiccano soprattutto la convincente prova di Francesco Meli (ripetutamente applaudito) nel ruolo di re Gustavo che consente al tenore, già esperto nel ruolo, di mettere in mostra una bella interpretazione regale e passionale e una ricca gamma di sfumature vocali, e il paggio di Serena Gamberoni, semplicemente leggiadro, di estrema freschezza, quasi lezioso. Buona la presenza scenica di Simone Piazzola-Anckarström, dell’indovina Ulrica (Dolora Zajick) e di Hui He nel ruolo di Amelia.
Sempre piacevolmente vivace e sostenuta l’orchestrazione del maestro Jesús López-Cobos sul podio dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in un’opera accattivante e di mezzo carattere sempre piacevolissima all’ascolto, preludio dei capolavori della maturità di Verdi.