The turn of the screw è un’opera complessa, che affronta temi psicologici e introspettivi con una forma quasi scientifica, partendo dalla musica e si sviluppandosi in un dramma che abbandona la trama e la melodia per diventare una lunga riflessione sulla natura umana.
Non lo si può definire una storia di fantasmi, sebbene l’elemento gotico sia presente fin dall’inizio, ma piuttosto un dramma introspettivo, un’allegoria sulla perdita dell’innocenza della protagonista, un’istitutrice alla quale vengono assegnate le cure di due bambini, all’interno di una dimora inglese infestata dagli spiriti di chi vi ha vissuto in precedenza.
Con questo Turn of the screw, il Teatro alla Scala ha fatto un eccellente lavoro di (ri)scoperta su un capolavoro non così conosciuto in Italia, mettendo in piedi una produzione raffinata, attenta alla filologia dell’opera eppure moderna nei canoni estetici, registici e drammaturgici.
Per comprendere meglio quest’opera di Benjamin Britten bisogna tentare di calarsi nel contesto della Biennale di Venezia del 1954, che la commise al musicista britannico (la prima fu al Teatro la Fenice). Alla Biennale quell’anno venne presentata una retrospettiva sui surrealisti: il manifesto riporta in grande il nome di E. Munch, ma sono presenti anche opere di Courbert, Klee e Magritte.
Sembra quasi di intravedere, tra le note di Britten e le parole scritte da Myfanwy Piper, quel surrealismo postulato da Bretonne, quel viaggio nell’inconscio profondo, che diventa sublime e inquietante se mescolato al gusto gotico di Henry James (il libretto è tratto da un suo racconto omonimo) e a quell’architettura complessa che ne è la costruzione musicale, fatta di suoni e sensazioni indotte.
Uno spartito che non lascia molti spazi alla melodia, ma diventa funzionale al dramma inscenato sul palcoscenico, con un unico tema che si sviluppa in 25 variazioni, 7 con tonalità crescenti e 7 con tonalità calanti, a rappresentare proprio il movimento del cacciavite sulla vite.
La musica è però altrettanto funzionale agli stati d’animo degli spettatori e accompagna il dramma proprio come la colonna sonora di un film, accentuando phatos, angoscia e tutto il caleidoscopio di sensazioni che accompagnano la protagonista nel suo cammino verso il tragico finale.
La chiave di questo dramma gira essenzialmente attorno alla perdita dell’innocenza della protagonista (The ceremony of innocence is drowned, si legge nel libretto), un processo che avviene dall’esterno all’interno, in un contesto dove la demarcazione tra ciò che è reale e ciò che appartiene al sogno, al pensiero, all’inconscio, viene lasciata allo spettatore.
Ed è proprio questo il vero elemento surrealista: non già i fantasmi (che appaiono come figure corporee e così terrene da diventare baricentro di pulsioni erotiche), ma piuttosto l’assenza di una demarcazione chiara tra ciò che accade nell’inconscio, ciò che accade nel flusso dei pensieri e ciò che avviene nella realtà metafisica della scena.
Un inconscio più simile a quello di Schopenauer che a quello di Jung: l’umana illusione di poter controllare e conoscere la realtà, ordinandola secondo criteri di razionalità (i fantasmi) e moralità (le pulsioni erotiche che sfociano nella pedofilia), senza rendersi conto che in ultima istanza il noumeno, cioè la realtà segreta e nascosta, domina l’essere umano e ne gestisce le sorti.
Ed è proprio questo elemento a determinare le vicende della protagonista, chiamata semplicemente Istitutrice, e spogliata quindi di una identità definita, che nel prorogo viene presentata come “inesperta, innocente” mentre nel finale – al termine del viaggio intrapreso con i due bambini – conclude, rivolgendosi al corpo esanime di uno di loro: “cosa abbiamo fatto noi due insieme? Malo, malo, malo”.
Gli stessi bambini, che inizialmente lei dipinge come “angeli”, scoprono, durante il giro del cacciavite, un lato malvagio (I am bad, I am bad canta il piccolo Miles), rappresentato dalle due presenze demoniache che, almeno in apparenza, li posseggono, iniettando in loro il seme della malvagità.
Le scene, i costumi e i video di Steffen Aarfing si inseriscono perfettamente in questa spirale, disegnando una sorta di casa delle bambole, dove due quinte mobili mostrano e nascondono stanze che in realtà sembrano scomparti della mente, sapientemente illuminati dalle luci di Ellen Ruge.
La regia di Kasper Holten e la direzione di Christoph Eschenbach si fondono alla perfezione con l’aspetto più “cinematografico” dello spartito di Britten, restituendo tutto il complesso castello di emozioni e pensieri suggeriti da libretto e musica, come un articolato ingranaggio che per tutta la durata dello spettacolo non ha mancato di funzionare con studiata precisione.
La voce di Miah Persson ha un timbro godibile in tutte le tonalità e una resa perfetta dei fiati in tutte le sfumature, disegnando un personaggio intenso e credibile nel dramma che si sviluppa. Un’interpretazione eccellente, nonostante la difficoltà del ruolo.
Jennifer Johnson dialoga con la Persson con altrettanta capacità, spingendo forse un po’ troppo sui fiati, ma restituendo alla perfezione la figura della domestica Mrs. Grose.
Ian Bostridge è un fantasma perfettamente consapevole della sua evanescenza nella testa dell’istitutrice, con una presenza eterea ma incombente e fisica, nonostante qualche problema trascurabile nei registri più acuti, che appaiono un po’ forzosi.
Allo stesso modo, la Miss Jessel di Allison Cook ha dei piccoli problemi con i fiati nei registri più alti, ciononostante rende alla perfezione l’incarnazione delle malvagità femminili, disegnando assieme alla giovanissima Louise Moseley una dicotomia sorprendentemente riuscita, soprattutto nel rapporto con l’inconscio della protagonista, attorno alla quale ruotano tutti i personaggi.
Lucas Pinto sembrava purtroppo privo di voce (forse colto da un male di stagione?), ma riesce comunque, nonostante l’età, a portare avanti lo spettacolo con professionalità, restituendo con la gestualità e grazie ad una vera empatia, la parte del bambino tormentato e importunato.
A fine spettacolo applausi fragorosi e convinti da parte di un teatro non gremito ma sinceramente entusiasta.
La recensione si riferisce alla recita del 13 ottobre 2016.
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The turn of the screw, opera in prorogo e due atti
Libretto di Myfanwy Piper dal racconto di Henry James
Musiche di Benjamin Britten
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Direttore: Christoph Eschenbach
Regia: Kasper Holten
Scene e costumi: Steffen Aarfing
Luci: Ellen Ruge
Drammaturgo: Gary Kahn
Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova Produzione Teatro alla Scala
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CAST
The Prologue/Peter Quint: Ian Bostridge
The Governess: Miah Persson
Mrs Grose: Jennifer Johnston
Miss Jessel: Allison Cook
Miles: Lucas Pinto*
Flora: Louise Moseley*
*Trinity Boys Choir, direttore DAVID SWINSON