“E poi all’improvviso il concerto ebbe inizio. Lo sentii dalla porta – Una serenata… Sulle prime lo sentii appena troppo inorridito per badarci. Ma poi il suono si impose. Era un Adagio solenne in Mi bemolle. […] Improvvisamente il terrore scese su di me. Mi sembrava di aver ascoltato la voce di Dio”.
Amadeus, commedia in due atti di Peter Shaffer (dalla quale è stato tratto l’omonimo film pluripremiato del 1984), si può riassumere in queste poche righe: con il rapporto visceralmente conflittuale tra la mediocrità (secondo l’autore) di Antonio Salieri – voce narrante e allo stesso tempo nemesi del protagonista – e il genio indiscusso di Wolfgang Amadeus Mozart, in un alternarsi di musica e recitazione, che prosegue con ritmo crescente fino al tragico finale.
Un archetipo narrativo, questo, che in fondo accumuna molte storie tragiche, indagando uno dei sentimenti più comuni, l’invidia, e allo stesso tempo una delle epifanie più dolorose per gli anti-eroi: la presa di coscienza della propria insignificanza di fronte all’immensità dell’eroe o, come in questo caso, di un genio così grande da sembrare davvero ispirato da un’essenza divina e da far sembrare Salieri il “Santo Patrono dei Mediocri”.
Non a caso, infatti, l’opera si conclude con l’esecuzione del Requiem K 626, l’ultima partitura scritta dal genio austriaco, ma anche quella che, in un certo senso, lo ha avvicinato maggiormente alla divinità. Non tanto per il contenuto in sé (si tratta di una messa da morto), ma piuttosto per quello spartito così perfettamente allegorico, semplice ma complesso allo stesso tempo, orecchiabile eppure così incredibilmente permeato di complessità armoniche e misticismo, di dialoghi perfettamente equilibrati tra orchestra, coro e solisti, così ricolmo di intuizioni che chiunque – anche il più profano – può riconoscerne e apprezzarne la grandezza.
Un capolavoro che, nella sua importanza e potenza, dimostra come l’uomo possa arrivare ad essere divino e come, nel suo atto di adorazione, sia in grado di costruire creazioni immense e immortali, sostituendosi al destinatario stesso dell’opera e divenendo egli stesso quel Dio che con tanta forza vuole invocare.
Purtroppo questa rappresentazione in forma di concerto, pensata e diretta da John Axelrod, ha lasciato questo aspetto decisamente relegato alle intuizioni degli spettatori. Le pecche nel controllo di un’orchestra non sempre precisa sono state evidenti fin dall’inizio, salvo poi attenuarsi proprio in quel Requiem che il maestro ha saputo dipingere con grande sensibilità, evidenziandone tutta l’enorme ricchezza di cromatismi e sfumature.
Non ha convinto fino in fondo il Salieri di Luca Barbareschi, forse troppo impegnato a leggere il copione dall’inizio alla fine, e nemmeno il Mozart di Francesco Bonomo, se non verso il finale dell’ultimo atto, quando ha saputo regalare al pubblico qualche momento di genuina commozione.
Anche la Costanza di Dajana Roncione non convince nel primo atto, ma riesce in qualche modo a risollevarsi con l’avvicinarsi della sua vedovanza, fino al momento in cui abbandona il marito esanime al centro del palco.
Essendo un concerto in forma semi scenica, non si può parlare di regia, ma un appunto va fatto comunque sulle aggiunte al copione, che hanno esasperato il carattere macchiettistico di Mozart e consorte, rendendoli eccessivamente grotteschi.
Molto godibile la performance del soprano Marie-Pierre Roy, che ha regalato un’Aria Mater alle arten (tratta da Il ratto dal serraglio) davvero apprezzabile, anche se non priva di qualche imperfezione.
Sul finale, con i tre movimenti del Requiem si sono aggiunti all’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi (che come detto non ha offerto un insieme privo di difetti), anche il coro omonimo, preparato dal maestro Erina Gambarini, il Mezzosoprano Eva Vogel, il tenore Patrick Grahl e il basso Thomas Tazl.
Applausi fragorosi dal pubblico a fine recita, estasiato forse più dalla bellezza della musica che dal complesso di un’esibizione certo non degna di nota.
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 28 ottobre.