Sul palco c’è un’ombra, e nel teatro si diffonde una melodia. Quest’ombra, sin dal primo accordo in Re, ci prende per mano e ci porta lungo la sua storia, che si arrampica, si affretta e prende tempo, corre forte in direzione ostinata e contraria, incespica nei sassi, ma non cade, è pura, grezza, candida e riottosa, e scende giù in profondità proprio come una creuza; ci si ritrova nel grigiore di una Genova che si svuota, e posando un attimo lo sguardo sul suo porto si ha la sensazione che qui nessuno debba tornare, che da qui tutti partano per mari lontani, cosicché le parole dei personaggi sembrano l’eco di un passato vicino, vivido e ben definito, la cui voce forte di ferma nostalgia si propaga nel presente, e prende il sapore delle storie di ieri.
L’ombra poi, si stacca dal corpo del suo attore, e indossa con superbia la mitra vescovile… chissà Don Gallo come si sarebbe immaginato il Paradiso: si può in Paradiso essere soli? Nell’attesa che arrivi qualcuno, almeno Fabrizio, Don Gallo volge gli occhi indietro, verso la propria vita, e racconta la semplicità dell’avere un cuore puro, che non vuol dire non commettere mai peccati, ma avere un cuore aperto, in ascolto e una mente sempre in azione, vuol dire essere contro, ma senza distruggere niente, vuol dire avere un’etica così ferrea da potersi permettere l’anarchia, vuol dire oltrepassare le forme per far convergere il buono sul proprio cammino, e pavimentare di marmo bianco questo cammino perché altri ci si possano ritrovare, trovando un respiro consolatorio alle loro storie personali, piccole piastrelle che l’uomo discende per andare incontro a se stesso. Don Gallo, attraverso le canzoni di Fabrizio De Andrè, ci presenta le persone dietro queste storie in un modo in cui ci appaiono familiari ed insolubili come le domande che pongono.
Per arrivare a quell’ampio cielo dal colore blu scuro, macchiato d’oro dai vespri, a quell’orizzonte, altissimo dietro il deserto, che è l’ultima strofa del “Testamento di Tito”, bisogna prima scendere nei bassifondi della città, tra le strade del porto, e tra Via del Campo e via San Siro seguire un giudice, e far due chiacchiere con quello che aveva alzato troppo il gomito, comprare le sigarette dalla contrabbandiera con il vestito più polveroso, e ascoltarla narrare la storia di uno a cui è partito un colpo, di uno che è andato in prigione, di un altro ancora che ha fatto una rapina; bisogna tenere l’occhio vigile mentre la si ascolta, perché poi bisogna continuare a seguire il giudice, fino dentro al portone davanti al quale si ferma incerto; bisogna entrare nel bagno, e contare le lacrime che la ragazza si strappa ogni volta, prima di concedersi a quella gobba paurosa. Ci si imbatte poi nella casa di Rò, e si nota sotto la sua finestra una sigaretta che ancora fuma, mentre lui sta correndo, all’impazzata, verso il suo amore, stringendo tra le mani il cuore di sua madre; alla stazione centrale si va a salutare Primavera, e parlando con lei si possono udire voci femminili dal lontano Brasile, e non ci si dimentica di Jones e dei compagni per cui ha suonato, mentre dormono con lui sulla collina.
È qui, nei bassifondi dalla polvere salmastra, dall’odore di mare, liquidi umani e catrame, è qui che si compie la Buona Novella.
Bisogna partire dal basso, e a volte restarci serve a fare cose grandissime; De Andrè e Don Gallo parlano di utopia, ma non di quell’utopia lontana, nebulosa, inafferrabile, quella possibile in tutti i giorni, che spinge ad andare avanti piccolo passo dopo piccolo passo, quella che dà speranza e fa trovare un filo conduttore oltre ogni schema, oltre ogni regola, al di là di ogni religione e di ogni etichetta politica, oltre ad ogni forma, e si svela così la più semplice e umana attitudine che induce alla carità: soffermarsi a guardare l’altro, e volerlo capire. E così, talvolta, anche Comunione può liberarsi della tonaca con cui ci si abitua a guardarla, per mostrarsi nella sua più essenziale naturalità, propria dell’uomo in quanto uomo, antecedente ad ogni sovrastruttura morale o religiosa.
Il telo dietro l’attore infine si alza, prima che cali il sipario, per regalare agli spettatori l’ultima sorpresa di note ed emozioni; e tra l’inchino dell’attore e gli applausi del pubblico, nella mia testa rimbomba una frase, e decido di tenermela stretta, cercando di farne tesoro: “Ogni volta che ho aperto le braccia, i muri sono caduti.”
Michele Riondino è noto soprattutto per il suo ruolo di protagonista nella serie televisiva “Il giovane Montalbano”, e per la sua partecipazione nel cast de “Il giovane favoloso” nel ruolo di Antonio Ranieri. In “Angelicamente Anarchici – Fabrizio De Andrè e Don Andrea Gallo” (alla cui autobiografia è ispirato il titolo dello spettacolo) Riondino è regista e unico attore sul palco; condensa in 70’ di spettacolo le idee di questi grandi personaggi, orchestrandole perfettamente per donarle al pubblico grazie alla drammaturgia di Marco Andreoli. Le musiche dal vivo sono eseguite da Francesco Forni (che si è occupato anche degli arrangiamenti), Ilaria Graziano e Remigio Furlaunt: anche alla particolare qualità di queste ultime è dovuta l’ottima riuscita di questo spettacolo.
“Mille anni al mondo, mille ancora; che bell’inganno sei, anima mia, e che grande il mio tempo, che solitudine… che bella compagnia.”