di William Shakespeare
traduzione di Sergio Perosa
adattamento e regia di Alex Rigola
con Michele Riondino, Maria Grazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtero, Beatrice Fedi e Andrea Fagarazzi
spazio scenico di Max Glaenzel, spazio sonoro di Nao Albet
illuminazione di Carlos Marquerie, costumi di Silvia Delagneau, assistente alla regia Lorenzo Marangoni
produzione Teatro Stabile del Veneto ed Estate Teatrale Veronese
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Le opere di Shakespeare sono come la pasta: le puoi condire in ogni modo ma la base è sempre buona.
Abbiamo visto Romei e Giuliette punk, Otelli bianchi, Amleti donne e questo perché le storie del baldo inglese parlano dell’essere umano e delle sue contraddizioni universalmente. La base, quindi, è buona. La struttura drammaturgica perfetta: personaggi, conflitti, cambi d’atmosfera, insomma parole che, come un buon grana, compongono un piatto già vincente.
“E quindi?”
“Quindi cosa?” rispondo.
Max sospira e prende in mano la birra bionda e fa per berla, ma prima dice le fatali parole
“Di cosa parla lo spettacolo di stasera?”
Il quesito mi ha gettata nello sconforto.
Confidavo che dal titolo, Giulio Cesare, avrebbe potuto cogliere, ma a quanto pare mi sbagliavo.
Così, guardando l’orologio col timore di non fare in tempo a mangiare i tramezzini, gli faccio una sintesi grossolana: Cesare, futuro re di Roma, viene ucciso da un gruppo di amici fidati, tra i quali Bruto e Cassio, timorosi della trasformazione della Repubblica in una tirannia. Al misfatto non prende parte Marcantonio, che, dopo aver aizzato le genti alla rivolta, guida un esercito in accordo con Ottaviano contro gli assassini di Cesare.
“Ah! Ma è un’opera contemporanea allora!”.
Quando gli faccio presente che Shakespeare è vissuto alla fine del ‘500, non ci da peso e si scola la birra.
L’attualità è stata una delle parole chiave di questa versione del Giulio Cesare di Alex Rigola. La si poteva cogliere in ogni aspetto: dai costumi (parchi pantolini e camicia bianca con brettelle), agli attrezzi di scena (microfoni come se piovesse), alle nuove tecnologie (video live e non) e anche alla recitazine (uno stile quasi confidenziale che in molti momenti non permettava allo spettatore di entrare nella storia e che di sicuro non aiutava la compresione dello stile non molto contemporaneo del linguaggio del Willy).
Tutto questo non mi sconvolge più, mentre temevo per Max. Chi l’avrebbe sopportata poi un’ora di macchina al ritorno con lui che si lamenta che il teatro contemporaneo non lo capisce?
E vedendo l’inizio, chi avrebbe potuto dargli torto?
La vicenda comincia con dei materiali photo-video su alcuni grandi uomini di potere contemporaenei, alternati da scritte bianche che, pur con punto di domanda finale, sembrano sempre delle accuse al fatto che siamo esseri spregievoli, disposti a tutto per il potere, pro violenza. Poi buio, stacco, e alla luce ecco che entrano un gruppo di attori vestiti da lupi. Lupi morbidosi e con la testa da cartone animato. Lupi che ricordano tanto quei poveri animatori di Gardaland vestiti da Prezzemolo che si beccano tutte le foto coi bambini. Max si gira perplesso e leggo dal labiale che mi sta insultando per averlo trascinato fino a Padova di venerdì. Gli faccio segno di aspettare. Di solito ci vuole un po’ per entrare negli spettacoli dichiaratamente contemporanei. Dagli fiducia Max.
Dopo mezz’oretta avevo perso anche io le speranze.
Pur avendo letto e straletto l’opera del british man, non capivo nulla.
Gli attori,come se si fossero dimenticati di bere il caffè prima della replica, recitavano languide parole estranee a loro, appoggiandosi alla scenografia per avere quel sostegno emotivo che la platea non dava. C’erano un sussegguirsi di segnali caotici: si passa dalla voce piena al microfono, dal microfono al video registrato, dal video registrato al video live, dal video live alla spada (segno indistinto di grande attualità), dalla spada alla ballerina lassù che nessuno sta guardando.
Mi sono girata verso Max e l’ho trovato nella classica posa che assume quando è sul divano e sta guardando un film che ho scelto io. Capo appoggiato al pugno destro. Occhi chiusi. Di fronte una ragazza dichiaratamente distesa sulla spalla della madre.
Li stiamo perdendo, William.
Ti prego, fa che accada qualcosa: non voglio che i giovani escano dal teatro pensando “che noia”.
Finché, è successo.
L’idea che ha rivoluzionato le sorti della mia serata e pure della spalla della mamma che temo non avrebbe resistito per ore al peso della figlioccia.
Luci in platea.
Parte un misero applauso dal solito abbonato che conosce gli orari e sa che ci stiamo avvicinando alla pausa ma viene bloccato subito dall’ingresso degli attori in platea. Max si riprende, mi guarda spaventato. L’amico che tutti vorremmo, Bruto, interpretato da Stefano Scandaletti, a luce piena si fa avanti in proscenio e finalmente fa sentire che ha una voce. All’improvviso tutto acquista senso: noi diventiamo la platea di gente e di senatori romani che sono lì al funerale di Giulio Cesare. Ci lasciamo prima convincere dalle parole di Scandaletti e poi da quelle di Michele Riondino (Antonio). E così finisce il primo tempo.
Poi eccoci subito al secondo che riprende con una buona energia e con un sacco di microfoni: sembra di stare a Sanremo e che stiano per entrare sul palco i Neri per caso. Ma l’idea della narrazione della battaglia tra traditori e traditi raccontata come una partita di calcio da voci, mentre dietro si portano su e giù ossa su ossa, è stata piuttosto travolgente.
Lasciando perdere il finale, che come l’inizio faceva occhiolino al nascosto fil rouge “attualità”, mi sono girata verso Max piuttosto rincuorata.
“Dai, non era male, no?”
Gli domando appena saliti in macchina.
“Non saprei” Max è la persona più intransigente che conosca “sì, alcune idee erano carine, però…sai, c’era tanta roba. Forse troppa. Non so, mi sembrava di essere in quel posto dove mi hai poratato quest’estate…”
“Alla Biennale d’Arte?”
“Eh esatto…”
Sospiro e metto in moto. Lui sembra aver concluso così la sua attenta analisi dello spettacolo. La parola finale però deve essere mia, per cui dico:
“Bè, a me è piaciuto un sacco, sai cosa? Che finalmente ho visto un Giulio Cesare donna.”
E accendo la radio.