Le aspettative per questo musical, alla sua prima milanese, erano molto alte. Un po’ per il nome altisonante della protagonista, un po’ perché da settimane la città è ricoperta di cartelloni e un po’ perché si tratta di una delle creazioni più belle di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice.
Purtroppo però il risultato è stato ben al di sotto di quanto si potesse immaginare – potremmo dire approssimativo e dozzinale – con un cast che ha collezionato un errore dopo l’altro, una scenografia monumentale ma scolastica e un’orchestra appiattita fino a sembrare finta.
Questo adattamento italiano di Massimo Romeo Piparo rappresenta quindi uno sforzo ammirabile ma purtroppo non riuscito, a partire dalla traduzione dei testi, che ha scombinato diverse metriche, tanto che in alcuni frangenti le parole sembravano infilate a forza nella musica.
La regia non presenta nulla di nuovo e nemmeno le coreografie di Roberto Croce, eseguite con approssimazione da un coro non sempre coordinato e a tratti non del tutto intonato.
Le scene di Teresa Caruso sono senza dubbio monumentali, con due file di edifici che si muovono aprendosi e chiudendosi sulla scena, oltre a diversi effetti speciali come la pioggia finale sul funerale, ma risultano scolastiche, scontate e prive di un’idea che abbia almeno una parvenza di novità.
Malika Ayane ha interpretato sul palco Malika Ayane, dimenticandosi forse di Eva Perón. Se a questo aggiungiamo problemi gravi di intonazione, difficoltà evidenti sui registri più acuti e qualche problema con le metriche (dovuto anche alla traduzione) e la dizione, otteniamo un risultato disastroso, attenuato solo da un’esecuzione discreta delle due arie Don’t cry for me Argentina e You must love me.
Le mancanze della protagonista sul palco hanno reso quindi l’insieme un susseguirsi di canzoni, senza che vi fosse quel pathos necessario ad apprezzare questa “opera rock” con il giusto spirito, amalgamando il tutto in una purea mielosa ma priva di anima, che nemmeno il talento del co-protagonista è riuscito a salvare.
Non vi è dubbio infatti che la vera scoperta di questo musical sia stata proprio Filippo Strocchi, che ha regalato al pubblico una performance apprezzabile sotto tutti i punti di vista, disegnando un Che Guevara che è allo stesso tempo voce narrante, coscienza di Evita e mattatore dello spettacolo, con una presenza carismatica ma mai ingombrante e una voce all’altezza della partitura.
Apprezzabili anche il Juan Peron di Enrico Bernardi, che ha saputo dipingere con voce calda e interessante un personaggio convincente e sfaccettato e l’Augustìn Magaldi di Tiziano Edini.
Belli i costumi di Cecilia Betona; sulle luci di Umile Vainieri invece resta solo il ricordo dell’uso sconsiderato di occhi di bue non sempre precisi.
L’orchestra, diretta da Emanuele Friello, è arrivata alle poltrone come un pastone indistinguibile di suoni, senza sfumature e senza che si potessero davvero distinguerne gli strumenti e gli accenti (non sappiamo se a causa dell’acustica del teatro o dell’impianto di amplificazione).
A fine spettacolo applausi sonori, anche se non troppo entusiasti, da un teatro non al completo, mentre all’uscita i commenti del pubblico erano tutti per le evidenti difficoltà canore della protagonista.
La recensione si riferisce alla recita del 9 novembre 2016 al Teatro della Luna di Milano