Alcune rappresentazioni teatrali raccontano, altre intrattengono, altre ancora evocano. L’Ubu re di Roberto Latini riesce a fare tutte e tre le cose contemporaneamente. Il primo capitolo della saga di Ubu, scritta da Alfred Jarry negli di passaggio tra Otto e Novecento, narra di come Padre Ubu (Savino Paparella) uccida Venceslao, re di Polonia, per impadronirsi del trono. A consigliarlo, o meglio a istigarlo, nelle sue azioni è Madre Ubu (Ciro Masella), una Lady Macbeth triviale e oscena che compensa la rozza ingenuità di Padre Ubu. La loro sete di potere dovrà, però, fare i conti con Bugrelao, figlio di Venceslao, all’apparenza non particolarmente sveglio, ma purtroppo ancora in circolazione. Una storia da raccontare, insomma, c’è. Viene disegnata su un foglio bianco, senza bozza a matita, cominciando coi colori pastello delle marionette e continuando con le tonalità vive della realtà. Nato come uno spettacolo per burattini, l’Ubu re si tinge presto della brutalità umana e ne copia la voracità e la corruzione. Latini porta sulla scena questa evoluzione del testo, la rende manifesta con un uso ponderato ed espressivo della maschera. La vis comica è quella rudimentale, sfacciata delle opere di Aristofane, la cui semplicità, oggi, disorienta prima di divertire. È una commedia che sputa le sue battute addosso al pubblico, gli urla in faccia quanto sia intrappolato in convenzioni sociali ridicole e lo fa pagliaccio di sé stesso. Lo fa attraverso la phonè, quel «rumore che è anche musica e dire» di Carmelo Bene, evocato sul palco col suo Pinocchio in catene (lo stesso Latini), che qui diventa il Caronte di un viaggio nella torbida natura umana.
Nella trama, e forse anche nell’intenzione artistica, è evidente il riferimento a Shakespeare, che permette di focalizzare l’attenzione sulla dinamica, sulla resa stilistica più che sulla vicenda. La parodia satirica di Jarry non intacca, però, la grandezza di Shakespeare, la sua monumentalità, anzi la solidifica. Non è critica negativa di Macbeth o di Amleto, è la stessa storia raccontata da un altro testimone ad altri avventori, con il piacere, qui, non della poesia, ma dell’impetuosità. La rivoluzione di Macbeth è la fredda pianificazione del male, quella di Ubu la caotica follia che vi sta dietro. «La patafisica, o scienza delle soluzioni immaginarie, – dice Latini- è una parola che da sola può essere sinonimo di Teatro» ed è la premessa a tutto ciò che di innovativo il Novecento porterà sul palcoscenico. La straordinarietà di questo modo di far teatro è che fa uso di un linguaggio universale, comprensibile anche da chi non parla la stessa lingua degli attori. Ogni personaggio è caratterizzato visivamente e sonoramente prima che caratterialmente, dal momento che il pensiero e la ragione sono offuscati dalla brama di potere. Animali superbi, questo siamo. C’è spazio anche per l’amore, in questa storia di Ubu, rivelato da due bestie che rompono, col loro silenzioso sentimento, la confusione dell’uomo. Abbiamo copiato da loro gli atteggiamenti sbagliati quando abbiamo deciso di essere più spontanei nel dividerci che nell’unirci.
Ubu roi evoca. Evoca Shakespeare e Carmelo Bene, evoca il mitico e l’assurdo, la poesia e la rigidità espressiva. È incoerente, irriverente, fastidioso come un uomo vero, che vive sbagliando. È l’intuizione di Jarry: scandagliare l’umano per tirarne fuori il marcio e agghindarlo fino a renderlo risibile, come una madre Ubu con barba e baffi, che sbraita senza ritegno in un costretto vestito da sposa. Come un padre Ubu che arranca cercando la voce ferma di un vero dittatore. Come un Pinocchio a cui pareva di aver raggiunto la libertà diventando uomo e si ritrova incatenato a un’impalcatura di compromessi.