Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nl mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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KNIGHT OF CUPS
Genere: drammatico
Regia: Terrence Malick
Cast: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portmann, Brian Dennehy, Antonio Banderas, Wes Bentley, Freida Pinto, Teresa Palmer, Joel Kinnaman, Imogen Poots, Joe Manganiello, Isabel Lucas, Armin Mueller-Stahl
Origine: Usa
Anno: 2015
In sala dal 3 novembre 2016
Il film: i festival spesso stupiscono: a volte fanno scoprire film interessantissimi se non capolavori che la normale distribuzione ignorerebbe totalmente (e spesso anche se premiati il loro passaggio sugli schermi è fugace), a volte assegnano premi in modo incomprensibile per i ‘normali’ spettatori anche se attenti alla ricerca della qualità e dell’intelligenza, a volte ignorano o quasi opere di notevole livello. È il caso di Knight of cups, settimo lavoro di Malick, presentato al Festival di Berlino 2015 e ignorato dalla giuria. Si tratta, invece, di un ottimo film, allo stesso tempo potente e lirico, che si avvale dell’arte di Emmanuel Lubetzki, eccezionale sia quando fotografa i suggestivi interni minimalisti delle ricche abitazioni di Los Angeles, sia quando il suo obiettivo immortala l’affascinante deserto o le assolate spiagge della California. In questo scenario tra auto di lusso e belle donne si sviluppa il percorso di Rick (un Christian Bale in ottima forma) – sceneggiatore hollywoodiano di successo – alla ricerca di se stesso, o meglio di un significato per la propria esistenza, al di là di amori fuggevoli, feste e corse in auto, e di metabolizzare antichi fantasmi. E non sono pochi: dal difficile rapporto con il padre, al disaccordo con il fratello, all’ombra pesante rappresentata dalla morte dell’altro fratello; si tratta di un percorso di ostacoli e di rimpianti che non trovano conforto alcuno in una vita edonistica ricca di fallimenti sentimentali. Malik racconta questo viaggio interiore dalla disperazione alla ricerca della speranza di dare una logica al proprio agire in modo frammentato – quasi come le immagini di un sogno apparentemente sconnesse, in realtà legate da un impalpabile filo conduttore – creando un film che cattura e coinvolge. Knight of cups è ricco di passaggi metaforici fin dal titolo: il Cavaliere di Coppe (Knight of cups) è una carta dei tarocchi che simboleggia le contraddizioni presenti in molti individui in cui convivono il bisogno di cercare una stabilità interiore che pare lontana, quasi irraggiungibile, e una natura inaffidabile e incapace di distinguere tra verità e bugia.
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KUBO E LA SPADA MAGICA
Genere: animazione
Regia: Travis Knight
Cast: voci di Art Parkinson, Charlize Theron, Ralph Fiennes, George Takei, Kari-Hiroyuki
Anno: 2016
In sala dal 3 novembre 2016
Il film: quarto film (dopo Coraline e la porta magica del 2009, ParaNorman del 2012 e Boxtrolls – Le scatole magiche del 2014) prodotto dalla Laika (tutti candidati all’Oscar, compreso quest’ultimo) conferma la grande capacità degli Studios di Portland di fondere tecnologia e artigianato (sono, infatti, le mani degli animatori – essenziali, nonostante tecnologie sempre più sofisticate, per il fascino di quest’opera – a muovere i pupazzi) per ottenere un prodotto raffinatissimo che regala sensazioni uniche. Realizzare un film come Kubo e la spada magica comporta oltre alla creatività un notevole approfondimento del mondo in cui si muovono i protagonisti e delle leggende e memorie trasmesse dalla tradizione popolare: in questo caso il Giappone e tutte le narrazioni sui samurai, il loro abbigliamento, le armi, gli atteggiamenti e le abitudini. E il volto di Kubo (così come quello degli altri protagonisti) doveva far apparire sentimenti, gioie e paure: solo per Kubo sono stati preparati trenta pupazzi con i quali era possibile dar vita a circa due milioni e settecentomila espressioni. Un lavoro incredibile che ha reso possibile realizzare un’opera in cui poesia, eleganza e fantasia sono costanti e ne fanno una perla rara che difficilmente uscirà dal cuore e dalla memoria degli spettatori. L’ambientazione è – come si è accennato – un Giappone fantastico in cui l’intelligente e generoso Kubo, orfano di padre, per sostenere se stesso e la madre compie ogni giorno un lungo percorso per raggiungere la città e raccontare leggende su antichi eroi e in particolare sull’eroico samurai Hanzo. Un giorno, Kubo evoca per errore uno spirito che sembra appartenere al suo passato e che si catapulta sulla terra per compiere la sua vendetta. Kubo inizia con due straordinari e inattesi compagni di avventura (Monkey, una saggia scimmia di legno, e Beetle, un coraggiosissimo scarafaggio gigante) un affascinante viaggio per salvare la sua famiglia e svelare il mistero che circonda le sue origini. Si tratta, è evidente, di un viaggio di iniziazione alla vita in cui dovrà affrontare ostacoli e mostri di ogni genere tra cui vendicativo Moon King e le malvagie Sorelle Gemelle. Riuscirà il nostro eroe a scoprire le sue origini e il suo destino?
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7 MINUTI
Genere: drammatico
Regia: Michele Placido
Cast: Cristiana Capotondi, Violante Placido, Ambra Angiolini, Ottavia Piccolo, Fiorella Mannoia, Maria Nazionale, Michele Placido, Anne Consigny
Origine: Italia/Francia/Svizzera
Anno: 2016
In sala dal 3 novembre 2016
Il film: in un’epoca in cui il cinema spesso evita accuratamente di trattare i temi del lavoro preferendo realizzare opere d’intrattenimento o su problematiche psicologiche e introspettive del singolo, occorre ringraziare Michele Placido rimasto – con i fratelli Dardenne e il britannico Ken Loach (di cui non si può non ricordare il bellissimo Io Daniel Blake Palma d’oro a Cannes 2016) – uno dei pochi a parlare dei diritti dei lavoratori e della ‘dignità del lavoro’. Concetto quest’ultimo che in quest’inizio di terzo millennio è considerato da molti (a volte anche uomini di Governo) desueto e nostalgica bandiera di chi si oppone al nuovo. 7 Minuti è tratto dall’omonimo dramma teatrale di Stefano Massini (portato in scena dal Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro e Teatro del Veneto per la regia di Alessandro Gassmann) a sua volta ispirato a fatti avvenuti in Francia, a Yssingeaux (Alta Loira) nel gennaio 2012 riguardanti il personale (tutto femminile) di un colosso industriale (la Picard & Roche) e i dirigenti, espressione del nuovo gruppo di controllo. Sette minuti è la richiesta formalizzata dalla nuova proprietà (una multinazionale) al consiglio di fabbrica consegnando una lettera a Bianca, portavoce dei lavoratori (splendida e intensa l’interpretazione di Ottavia Piccolo, già protagonista del lavoro teatrale), al termine di una lunga riunione in cui il nuovo management si è profuso in assicurazioni sul non prevedere licenziamenti o delocalizzazioni. Una richiesta apparentemente piccola piccola cui occorre dare un sì o un no per iscritto entro poche ore: è in gioco il futuro di trecento operaie, ma non solo di quelle. Cos’è la rinuncia a sette minuti di pausa di fronte al mantenere il posto di lavoro? Apparentemente nulla e, infatti, dieci delegate decidono per il sì e non vorrebbero nemmeno discutere. L’unica a opporsi è Bianca che vuol esporre i propri dubbi e parlarne prima di arrivare a una conclusione di cui in futuro potrebbero pentirsi, stabilendo anche un pericoloso precedente. S’innesta lo schema de La parola ai giurati (il film cult di Sidney Lumet) in cui progressivamente alcune delegate cambiano opinione con l’emergere dei temi di fondo della dignità del lavoro, del non rinunciare ai diritti acquisiti e del non regalare il proprio lavoro. Sette minuti al giorno sono seicento ore al mese di produzione a costo zero per l’azienda, ma pagate dal personale con un ulteriore sacrificio. E a cosa serve produrre di più quando la crisi economica determina un accumulo di prodotti invenduti? I sette minuti sono quindi un subdolo grimaldello per far perdere – con l’approvazione scritta dei lavoratori condizionati dalla giusta paura di perdere il lavoro – diritti acquisiti, stabilendo un pericoloso precedente. Il tema della dignità del lavoratore (non si può non ricordare l’eccezionale Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne) s’integra con altre problematiche dell’odierna società: gli immigrati cinicamente utilizzati per abbassare se non eludere i diritti o la sostituzione degli antichi proprietari (uomini che vivevano nell’azienda che spesso avevano creato) con management espressione di gruppi finanziari. Per questi le società sono solo grafici di redditività e i lavoratori numeri (quasi da rimpiangere l’antico ‘Paron da li beli braghe bianche’). Oltre alla già citata Piccolo, sono da ricordare le performance di Fiorella Mannoia, Ambra Angiolini e quella di Michele Placido (il viscido padrone italiano dell’azienda, nel film la Varazzi Tessile). A Michele Placido (come a Massini e Gassmann per l’opera teatrale) va riconosciuto il coraggio in un’epoca di disimpegno sociale di denunciare i ricatti cui sono sottoposti i lavoratori (spesso con il beneplacito di chi invece dovrebbe difenderli) terrorizzati dal rischio disoccupazione.
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LA PELLE DELL’ORSO
Genere: drammatico
Regia: Marco Segato
Cast: Marco Paolini, Leonardo Mason, Lucia Mascino, Paolo Pierobon, Maria Paiato, Mirko Artuso, Valerio Mazzucato, Massimo Totola
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 3 novembre 2016
Film: tratto dall’omonimo bel romanzo di Matteo Righetto (edito da Guanda), La pelle dell’orso ha dominato il Festival Annecy Cinéma Italien 2016 vincendo il Grand Prix Fiction, il Prix Cicae e il Prix Annecy Cinéma Haute-Savoie. É il debutto nel lungometraggio di Marco Segato e quello cinematografico (da protagonista) di Marco Paolini, uno dei nomi più significativi del Teatro italiano. Paolini noto per gli spettacoli-monologo su temi ed eventi che segnano la nostra società e, a volte, la nostra storia (come non ricordare quello indimenticabile dedicato alla tragedia del Vajont) nel film di Segato dà vita e umanità a Pietro, un montanaro alcolizzato e consumato dalla solitudine. La vicenda si svolge all’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso in un paesino delle Dolomiti in cui la vita scorre senza scosse segnata dai ritmi quotidiani delle campane. Pietro ha un figlio (Domenico, il convincente Leonardo Mason) – un dodicenne sveglio e introverso – con il quale ha un rapporto molto problematico, deteriorato da solitudine (la madre non c’è), lunghi silenzi e incomprensioni che li hanno trasformati in due estranei. Un giorno la piccola comunità è scossa dall’uccisione in una stalla del villaggio di una mucca da parte di un vecchio e feroce orso (il diaol) che si raccontava come spauracchio per i più piccoli che vivesse nei vicini boschi. Il ‘diaol’ (diavolo nel locale dialetto) è entrato in paese e la comunità è talmente terrorizzata (più dalla superstizione che dall’orso) da essere incapace di prendere qualsiasi iniziativa. Reagisce solo Pietro che nell’osteria, tra un bicchiere di vino e l’altro, annuncia che vuol dare la caccia all’orso. Tra le risate e lo scetticismo generale prende corpo la sfida-scommessa di Pietro a Crepaz (Paolo Pierobon), il suo datore di lavoro: ucciderà ‘il diaol’ contro una somma di denaro. Pietro parte per la caccia e viene raggiunto dal figlio che decide di seguirlo abbandonando la sicurezza del villaggio per immergersi nell’ignoto. Inizia così il lungo viaggio nei boschi di padre e figlio, viaggio simbolico per entrambi ma soprattutto per Domenico per il quale assume la valenza di un viaggio iniziatico al termine del quale non sarà più quello di prima. Raffigura il viaggio mentale e psicologico che ogni giovane – prima o poi – compie per uscire dall’adolescenza e affrontare le sfide e i mostri della vita (altrimenti resta per sempre un ‘bamboccione’). Il viaggio come prova di coraggio per metabolizzare i dolori subiti e soprattutto la paura del futuro: senza coraggio non si affronta la vita da aspiranti vincitori così come non si affronta l’orso. Bella la descrizione dei boschi, delle montagne e degli uomini che le abitano: ricordano le pagine di Mario Rigoni Stern con l’attenzione alla vita degli uomini semplici e il loro rapporto con il mondo contadino e i suoi valori in quegli anni ancora un po’ ancestrali. La pelle dell’orso è una fiaba in cui il reale sfiora il fantastico e come tutte le fiabe ha la sua valenza didascalica: ognuno (adulto o ragazzo) deve affrontare con coraggio il suo orso.