Intervista spettacolo
Con Piera Degli Esposti
e con Pino Strabioli
Produzione Società per Attori
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Ragazzi, quant’è interessante, quant’è denso, l’incontro con la personalità delicata e multiforme di Piera Degli Esposti. In un’ora e mezza, grazie alla presenza piacevolmente pacata di Pino Strabioli, si viene a conoscenza di un mondo fantastico, di una donna e di un’attrice, affascinante emanatrice di bellezza. Una bellezza di presenza e di anima, che va manifestandosi nel corso dell’intervista, come i colori della luce attraverso un cristallo. Tutto inizia con una ragazzina che, finite le elementari, si rifiuta di continuare gli studi, e con un padre rispettoso che glielo permette. Tutto inizia con una ragazzina che non impara a leggere bene l’orologio, che ha uno strano rapporto con il tempo; una ragazzina che legge per i non vedenti di un istituto di Bologna; una ragazza abituata a recitare i monologhi teatrali ai muri di casa. Un’attrice che non viene riconosciuta tale, né agli esami d’ammissione d’accademia, né ai primi provini, e che, nonostante questo, insiste a voler affermare la propria identità. Non si tratta, infatti, di egoica testardaggine, bensì di identità d’animo. E poi gli innumerevoli incontri: Calenda, De Chirico, Eduardo, Dacia Maraini, l’adorato Robert Mitchum. Il legame tenero e commovente con Lucio Dalla. I ruoli interpretati, l’attitudine drammatica e quel piglio ironico che le permette di regalarci uno splendido racconto di Achille Campanile: Le seppie coi piselli. Altri scorci del suo teatro ce li regala con la Molly dell’Ulisse e con una toccante interpretazione di Dondolo, di Beckett. Ma soprattutto regala preziose considerazioni, pur non cercandole, con graziosa semplicità.
Augurandovi di incontrarla, vi lascio con una sua frase (che trovate in epigrafe al volume Bravo lo stesso! Il teatro di Piera Degli Esposti, a cura di Manuel Giliberti):
«Io penso che l’attore abbia un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare. Consolarci dei nostri lutti, degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia e della morte. Può consolare facendo ridere, come Totò; ma deve riuscire ad entrare come faceva lui nelle profondità linguistico-ripetitive e distorte delle sue parole. O come Eduardo che, avendo raggiunto quella profonda conoscenza di sé, poteva “consolare” anche solo esibendo la propria persona, in maniera quasi impudica. Per essere attori, quindi, non mi sembra sufficiente la bella dizione, la bella voce, la disinvoltura, l’elegante quanto narcisistico “porgere”, ma calarsi nel proprio buio per risalire, poi, portandosi alla luce».