produzione Teatro dell’Elfo
regia Ferdinando Bruni
Francesco Frongia
interpreti Elena Russo Arman, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Matteo De Mojana
suono e programmazione video Giuseppe Marzoli
direzione e arrangiamento delle canzoni Matteo De Mojana
luci Nando Frigerio
durata dello spettacolo: h 1,30 senza intervallo
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Colpisce immediatamente, di questo spettacolo, l’uso fantastico della scenografia. Sembra inevitabile domandarsi come mai, nel bel mezzo della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, e che così drasticamente trasforma molti aspetti della nostra vita, sia ancora così inusuale portare la digitalizzazione nel teatro. Forse perché, dopo aver tanto osato negli anni delle sperimentazioni avanguardistiche, il palcoscenico sembra essere stato nuovamente posto in un luogo che ne valorizza più la conservazione dell’innovazione. Forse proprio perché in un’epoca di cambiamenti continui al popolo del teatro conservare sembra più dignitoso e meno rischioso che stravolgere. Lasciando, per il momento, da parte riflessioni che meriterebbero di essere approfondite, andiamo ad assistere davvero a qualcosa di nuovo quando siamo immediatamente immersi nel mondo sotterraneo di Alice: le fantastiche e bellissime scenografie, realizzate con più di trecento acquarelli di Ferdinando Bruni, a loro volta animati da Francesco Frongia, hanno saputo usare sapientemente la tecnologia digitale, appunto, regalando allo spettatore momenti di follia, piacere e stupore nell’assistere al flusso di immagini vive che si contraggono ed espandono in continuazione. Oltre ad una scelta innovativa (e bella!) si tratta di una scelta coraggiosa: il rischio di non gestire bene il confine tra teatro, cartone animato e cinema c’era, di creare, insomma, una sorta di ibrido non ben identificato. Sembra piuttosto che i registi abbiano voluto omaggiare Georges Méliès, uno dei padri dell’arte cinematografica, e ricordarci, al tempo stesso, che se gli effetti speciali esplosivi ci stufano possiamo ancora concederci di tornare indietro e sognare davanti alla “semplicità” di illusioni ottiche ed immagini animate ben fatte.
Chiunque ami i testi del reverendo Charles Lutwidge Dodgson, meglio noto come Lewis Carrol, ma, purtroppo, non altrettanto famoso come la Disney, non sarà deluso da questa trasposizione teatrale: un’Alice con le Converse, né piccola né grande (benché affermi con certezza di avere sette anni e sei mesi al momento del misfatto), ma infantile, acuta in tutti i sensi, petulante, simpatica, isterica, troppo curiosa per riuscire ad essere educata come si sforza di essere, dialogando con ventisei personaggi (interpretati da tre attori!) presi dal Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio ci pone dilemmi eterni: come stanno in relazione sogno e realtà? Cosa sono spazio e tempo?
E ci rivolge domande di portata esistenziale: chi sono io? Dove sto andando? Dove voglio andare?
Questi personaggi, infrangendo in continuazione qualsiasi morale, ci mostrano magistralmente una metafora della vita, della noia, della crescita e del cambiamento che fa sì riflettere, ma soprattutto ridere.
Mi sono chiesta perché, di tanto in tanto, cantassero, quasi a voler sfidare nuovamente i confini del genere e cimentarsi in un assaggio di musical; il perché di Octopus’s garden, a parte il fatto che sia Alice sia il polpo vivono sotto qualcosa (rispettivamente sotto il mondo e sotto il mare).
Mi sono risposta che la bellezza non deve avere sempre e per forza un senso.