Quando nominiamo Dario Fo, istintivamente sorridiamo.
Sarà per la sua mimica facciale, il suo sorriso beffardo, per l’energia che sprigionava, per la potenza della sua oralità che trascinava tutto il pubblico in una scatola magica, per tutte le volte che abbiamo riso grazie a lui.
L’uomo se ne è andato il 13 ottobre 2016, l’artista è definitivamente diventato immortale.
Dario Fo è stato un artista, lo è ancora, nel senso proprio del termine: potremmo dire poliedrico artista, a tutto tondo, perché lui dipingeva, disegnava, creava costumi, scriveva, ideava, recitava. Gli spazi dell’arte li ha toccati tutti, ma il teatro è sempre rimasto la sua più grande passione; un rapporto vicendevole di scambio e di gratificazione.
Il teatro gli ha dato la possibilità di esprimere tutto se stesso, tutta la sua arte, la sua gioia, la sua vulcanicità, il suo disappunto e soprattutto è stato il mezzo attraverso il quale ha combattuto contro il sistema.
Figlio di un ferroviere, veniva dal popolo, ha lavorato per il popolo ed è sempre stato uno del popolo; figlio, amico, compagno, padre, al fianco e a sostegno dei cittadini liberi e pensanti.
Fin da bambino si è sempre portato addosso la magia dei “fabulatori” che raccontavano nelle piazze, nelle osterie, strane storie, un poco ingenue, un poco matte. La semplicità era la loro caratteristica. Le loro storie erano semplici iperboli, desunte dall’osservazione della vita quotidiana e trasformate in poemi epici; ma al di sotto di queste storie assurde si nascondeva la loro amarezza: l’amarezza della gente delusa e di una satira acerba che forse pochi coglievano. Questi improvvisati spettacoli di critica beffarda alla società, che traevano le basi dalla commedia dell’arte di epoca antica, che infrangevano i limiti del teatro borghese, furono la forza creatrice del sarcasmo tagliente di Dario Fo: egli scopre una cultura nuova, la cultura vera, quella di coloro che sono sempre stati definiti i semplici e gli ignoranti, che sono sempre stati i “guitti” della “cultura ufficiale”.
Così, ancora studente, inizia ad improvvisare storie che lui stesso recita in chiave farsesca e satirica: il bersaglio principale sono le idiozie e le banalità della cultura scolastica, storie in cui si susseguono personaggi boriosi e ridicoli in una dimensione di cartapesta, privi di qualsiasi umanità concreta, gonfi di retorica astratta.
Il passaggio alla satira sociale e politica, è rapido e istintivo come il saltello di un bambino per un uomo come lui che è sempre stato mosso da un irrefrenabile spirito anarchico.
Il teatro politico era già noto in Italia (basti pensare all’appassionata libertà culturale professata da Pier Paolo Pasolini), ma Dario Fo e Franca Rame, compagna di vita e di lavoro, apportano un contributo non da poco, da metà degli anni ’60 in poi. Era un teatro legato all’attualità, riportando in scena eventi di cronaca: furono gli anni più prolifici ma anche quelli più impegnati, più coerenti del loro lavoro di teatranti controcorrente.
I movimenti del ’68 e degli anni successivi, rappresentano la linfa vitale per la nascita e l’evoluzione del teatro politico di Dario Fo: quegli anni si caratterizzarono in un cocktail esplosivo e variopinto, innestandosi sul filone della protesta operaia: furono anni di profondi cambiamenti, nei quali la libertà di espressione cercava di liberarsi come mai era successo. Questo carattere – fatto di fantasia e ideologia, di energia giovanile e di illusioni, di impegno e di musica, di banalità e grandi temi, di verbosità e di fatti clamorosi – modificò profondamente il comune sentire.
In questo clima, Dario Fo decide di lasciare i teatri di tradizione e di cercare spazi nuovi, mettendosi a disposizione di un pubblico che normalmente non andava a vedere rappresentazioni, bloccato anche dalla forma che il teatro aveva, diviso in palchi, proprio come la società, che era divisa in classi. Allontanandosi dal teatro borghese cominciò ad esibirsi in luoghi “non convenzionali”: fabbriche occupate, piazze, carceri, case del popolo.
L’idea di cultura per la quale si è sempre battuto non è mai stata accademica né elitaria.
Il suo lavoro nasce dalla cultura popolare (dalla quale trae la sua forza) per essere restituito al popolo, affinché le classi sociali che da secoli erano state costrette nell’ignoranza prendessero coscienza del fatto che è il popolo ad essere depositario delle radici della proprio cultura. Questo popolo non voleva soltanto essere fruitore di un testo, di un discorso, di un spettacolo fatto da un intellettuale, ma voleva essere partecipe, indicare ciò di cui aveva bisogno che si parlasse, ciò che di sconosciuto, nascosto e profondo stava accadendo.
Affermava: «Non è un caso che io mi sia rifatto ad una nostra tradizione, ai gesti della commedia dell’arte e alle musiche antiche popolari, in quanto ritengo che a teatro, tanto più si va sperimentando verso il nuovo, tanto più occorre affondare nel passato; ed a me interessa soprattutto un passato che sia attaccato alle radici del popolo, cioè che parta dalle manifestazioni di vita e di cultura del popolo, per poter esprimere nuove ricerche e saggiare nuove indagini, sulla base quindi del concetto del “nuovo nella tradizione” al quale sono legato».
In questo clima di stimolo creato dalla masse, nasce la sua opera più famosa, quella che sarebbe diventata una delle opere più rappresentata al mondo, quella che nel 1997 lo porterà a vincere il Nobel per la letteratura: “Mistero Buffo”.
Questo testo sviluppa ed approfondisce la ricerca di Fo sulle origini della cultura popolare: per più di tre ore si susseguono testi medioevali liberati dalle incrostazioni aristocratiche, recitati da un giullare del popolo che riesce a coinvolgere il pubblico in uno spettacolo corale di straordinaria efficacia, di satira violenta degli antenati dei padroni di oggi. La cultura delle classi dominanti viene fino in fondo smascherata per quello che è: arma di potere per opprimere e rapinare le classi sfruttate.
Sul palco la sua voce è un gesto; le varie voci che interpretava moltiplicavano i personaggi sulla scena, senza mai farli apparire fisicamente; il contatto visivo, mobile ed insieme fisso, teso al contatto con gli spettatori; le mani mai ferme, gesticolanti, rapide, veloci, creano storie, ed il corpo, matto, guizzava con quella forza che deriva dalla pluralità degli uomini e del mondo. La lingua del Grammelot fendeva le orecchie del pubblico: un linguaggio che non si fonda sull’articolazione delle parole, ma riproduce alcune proprietà del sistema fonetico di lingue e di dialetti. Riproduce l’intonazione, il ritmo, le cadenze, la presenza di particolari toni e le ricompone in un flusso continuo che assomiglia ad un discorso ed invece consiste in una rapida e arbitraria sequenza di suoni. L’attribuzione di senso è resa possibile dall’interazione di due livelli che lo compongono, quello sonoro e quello di una forte componente mimino-gestuale; è un’antica arma utilizzata dai guitti contro il potere e la censura, comprensibile, non trascrivibile, non censurabile.
“Mistero Buffo” influenzò ovunque autori ed attori, ed è considerato un modello per il genere di teatro di narrazione, sviluppato per esempio in Italia da attori-narratori come Paolini e Baliani. La differenza con loro sta nel diverso uso del corpo e delle potenzialità sceniche che ne fa Fo. «Nel Mistero buffo ogni suono, verso, parola o canto, uniti alla complessa gestualità utilizzata, formano un insieme semantico inscindibile di cui il racconto degli eventi è solo un canovaccio. Lo stile irriverente, portato all’eccesso, si richiama infatti alle rappresentazioni medioevali eseguite da giullari e canta storie».
Dario Fo ha mostrato al mondo che cosa significasse “reinventare e reinventarsi”, che si tratti una parola, di un guizzo, di una lingua fittizia fatta di suoni che nella loro apparente e vivace incomprensibilità sono poi diventati comprensibili al mondo.
Il Nobel assegnatogli nel 1997, il quale ruppe tanti luoghi comuni sulla letteratura, gli è stato conferito non solo per aver resuscitato e data nuova nobiltà nelle sue pièce alla commedia dell’arte, ma anche per aver restituito al teatro, a voce alta, la sua funzione di denuncia, la sua funzione sociale: «Perchè, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».
E infatti il punto centrale della produzione teatrale di Fo è costituito proprio dalla presa di coscienza dell’esistenza di una cultura popolare, vero cardine della storia del teatro che, invece, secondo lui, è stata sempre posta in piano subalterno rispetto alla cultura ufficiale, paludata, che molte volte si indignò. Ha rovesciato il punto di vista dello spettatore ponendo l’accento sulla mistificazione degli avvenimenti storici e letterari nel corso dei secoli.
Dario Fo è sempre rimasto un uomo incorruttibile, fedele al suo pensiero ed alle sue ideologie, ispirato da una sua visione del mondo, ha indossato tante maschere ma solo sui palcoscenici.
Ci rimane la risata del giullare, che smette di risuonare nelle nostre orecchie, ci rimane il suo teatro colorato, da continuare a leggere e interpretare, con il quale combattere questo mondo grigio e scuro.