Mediante le vicende di natura popolare tra cantici e musici, astuti briganti e boss locali, valorosi combattenti, donne affascinanti dal sapore arcaico e scaltri farabutti rivive, con il luogo focale della barberia di paese, un patrimonio ricco di memorie, di narrazioni tragicomiche di una cultura millenaria che il poliedrico e magistrale Andrea Camilleri fa affondare nelle radici del mito “donna-albero” di antica memoria agganciata a Dafne.
La protagonista, Valeria Contadino, con commovente pathos retto da una personale drammaturgia ed espressività del linguaggio attoriale, nel finale invoca la Madre Terra nel rallentamento della sua corsa fino a trasformare il proprio corpo in rami ricchi di frutti ed in robuste radici con il volto delicato segnato dalle sofferenze ma anche da una nuova “rinascita”!
Lo spettacolo firmato da Giuseppe Dipasquale è il risultato di un viaggio che trova il suo inizio in una successione di incastri, a volte ironici a volte drammatici in cui la donna assume una posizione prevalente rispetto all’uomo. Un mondo, racchiuso nella Sicilia della Vigàta di Camilleri, in cui la morte e la vita si miscelano in un’allegoria, un combattimento sempre sul confine del burrone, come fossero degli antichi pupi siciliani, in cui la parola si sostituisce agli scudi ed alle spade per poi confondersi nel passato e nel presente.
Oltre all’uso sapiente della teatralità, Dipasquale infonde alla narrazione la leggerezza e la freschezza delle musiche originali di Mario Incudine, con la collaborazione di Antonio Vasta, per dar “voce” a questi personaggi.
Nei loro discorsi emergono verità taciute e storie ormai dimenticate amalgamandosi in minuscoli tasselli di un mosaico. Storie semplici di ogni giorno, storie la cui trama si ripete nella “storia” del nostro paese comune ad ogni altro luogo del mondo, con le dovute sfumature… il tutto narrato con ironia godereccia a tratti illuminata da un dolore vivo e bruciante, di un qualcuno ormai perso per sempre: “un figlio mai nato”.
“Il Casellante”, spettacolo in due atti, ammanta gli spettatori con il fascino del dialetto siculo tra risate, corna, storie di fascismo, grida, giochi, sberleffi, scherzi, accuse, insulti, sogni, rimpianti, scuse, abbracci e lacrime in un album dei ricordi collettivo verso una sorta di pacificazione finale.
Fondamentale il cast, formato da attori-musicisti capitanati da Moni Ovadia, attore da sempre carismatico, uomo di spettacolo ma anche di sapiente cultura che si trasforma da barbiere a mammana e via via nelle molte facce presenti in scena, sempre con misura e autorevolezza pur con qualche incertezza nell’inflessione dialettale, accompagnato dagli intensi Mario Incudine, Sergio Seminara, Giampaolo Romania e nella sonorità di Antonio Vasta e Antonio Putzu. Evocative e funzionali le scene firmate dallo stesso Giuseppe Dipasquale a corona dei costumi di Elisa Savi e delle luci di Gianni Grasso.
Una potente pièce che si dipana come una tavolozza, dal colore vivace a quello cupo, dal bianco al nero miscelando il grigio per celebrare un amore eterno, più forte di ogni separazione; l’amore per la maternità nella continua ricerca di una metamorfosi interiore non solo ideale ma soprattutto materiale di assoluta bellezza.