Un’apertura di stagione decisamente desueta, ricca di critiche e che ha suscitato grande scalpore quella del Teatro Comunale di Bologna con l’attesissimo Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). I motivi di tanto scalpore sono diversi e poco hanno a che fare con l’originale opera di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Christoph Friederich Bretzner che andò in scena la prima a volta a Vienna nel 1782, durante la prima stagione dedicata allo Singspiel, lo spettacolo in lingua tedesca formato da musica e recitazione.
Ciò che più di ogni altra cosa ha fatto rumoreggiare spettatori e critici è stata l’idea del regista austriaco Martin Kusej di traslare ai giorni nostri una storia che vede consumarsi i difficili rapporti tra l’Europa e il mondo islamico evocando le attuali minacce e barbarie dell’Isis. Questo allestimento, in coproduzione con i teatri di Aix en Provence e di Brema, finora censurato e mai andato in scena, è stato anticipato da molti rumors tanto che, alla fine, ci si aspettava decisamente di più. Martin Kusej e il suo drammaturgo Albert Ostermaier compiono un’operazione di trasformazione dell’opera originale su più fronti: decidono, anzitutto, di spostare la vicenda dai fiabeschi palazzi sul Bosforo a un arido deserto arabo in tempo di guerra, nel quale campeggia una tenda nera piantata a terra cambiando completamente la scena dove si svolge l’azione. Quello che più destabilizza però, e forse un po’ disturba, pur essendo una scena di grande impatto visivo per i nostri occhi ancora scossi da alcune immagini recenti di atti terroristici e persecuzioni, è vedere campeggiare le bandiere nere simbolo dell’Isis spiegate sulla scena e i servi del pascià vestititi come dei guerriglieri, terroristi islamici, e assumerne anche gli stessi atteggiamenti, come ad esempio scattare le foto ai prigionieri tenuti a terra con il coltello puntato sulla gola.
Un altro aspetto dirompente rispetto all’originale è la riscrittura dei dialoghi che calcano le moderne spaccature tra il mondo cristiano occidentale e il musulmano medio-oriente, ponendo un accento sinistro sul disprezzo nei confronti delle donne e sulla sfrontata violenza Jihadista.
La storia, nella sua essenza, rimane pressoché invariata, ciò che cambia profondamente è il senso del racconto, estrapolato dalla sua dimensione fiabesca e inserito in una truculenta vicenda di sangue e di terrore, con tanto di esito tragico nel finale. Costanza, sposa di Belmonte, è stata rapita dal Pascià Selim insieme alla cameriera Bionda e al servitore Pedrillo, durante i disordini causati dalla prima guerra mondiale (ciò riporta a un’ambientazione non proprio contemporanea, i cui esiti però, tutt’oggi, sono cogenti). Ostaggi nelle mani di Osmino, capo delle guardie del Pascià, in un deserto minaccioso e invalicabile nei pressi della frontiera di un decadente Impero Ottomano, i protagonisti, dapprima separati, si ritrovano nelle lande desertiche e tentano di fuggire. Costanza e Belmonte euforici nel loro essersi ritrovati, pensano di poter superare gli ostacoli e l’avversione del territorio con la forza del loro amore, mentre la Bionda è preoccupata perché teme che gli inseguitori li raggiungeranno presto. E così accadrà. Il pascià Selim rintraccia i fuggitivi e comprende che le promesse di Costanza erano solo un misero stratagemma. Dopo il primo momento di rabbia la ragione e l’intelligenza conquistano il cuore di Selim che decide di liberare i suoi prigionieri in un grande e profondo gesto di conciliazione e di perdono “prendi la tua libertà, prendi Costanza, e ritorna nel tuo Paese, nella tua terra putrida. Dì a tuo padre che io ti ho avuto in mio potere. Ma la violenza non ha nessun potere su di me. Per questo ti lascio libero. Puoi andare. Tu sei per me la prova vivente del piacere di riconciliare il torto attraverso il perdono.” dirà Selim a Belmonte.
Ciò che impoverisce questa rappresentazione, resa suggestiva nella messinscena con i suoi falò, il cielo dipinto di rosso sul fondale, l’immenso deserto e il proiettarsi costante delle ombre dei protagonisti su di esso, è la lentezza con cui l’opera si sviluppa, con un parlato preponderante rispetto alla musica e vuoti scenici che rallentano il tutto. La prestazione del direttore d’orchestra Nikolaj Znaider è stata buona, e ha provato a trovare un equilibrio tra la musica e l’azione, cercando di tinteggiare le parti musicali, senza eccedere nei tratti esotici perché la messinscena richiedeva necessariamente un’altra chiave di lettura, non solo delle parole ma, per quanto l’operazione fosse molto complessa, anche della musica.
Il cast scelto da Kusej è parso molto contenuto nell’interpretazione e l’unico in grado di dare forza ed enfasi al suo personaggio è stato Mika Kares, che ha portato in scena un Osmino ricco di sfumature psicologiche e vocali imprimendo quel tratto sinistro che lo condurrà, sul finale, a disobbedire il padrone, almeno così sembra, e tagliare le teste dei suoi prigionieri. Cornelia Götz nei panni Costanza è meno convincente, soprattutto le è mancata quella parte ammiccante e seducente e la sua voce, non sempre brillante nella musicalità e nella personalità di un personaggio che sulla carta, ha una grande potenza espressiva. Più convincente Julia Bauer nei panni di Bionda, capace di essere provocante e coraggiosa la Bauer trasferisce queste inclinazioni non solo con la sua fisicità ma anche nel tessuto vocale. Bernald Berchtold e Johannes Chum nei panni di Belmonte e Pedrillo hanno eseguito in modo sobrio, senza picchi, i personaggi, rendendoli un po’ piatti. Buona invece l’interpretazione del Pascià Selim di Karl-Heinz Macek.
E poi c’è il finale. Quel finale inaspettato in cui Osmino rientra in scena gettando ai piedi del Pascià Selim le teste mozzate dei prigionieri. Decidere di cambiare un finale nel quale, come raramente succede, si dà spazio al perdono con un finale truculento, nel quale è l’odio a vincere è stata una scelta di pessimo gusto. Perché l’arte deve creare bellezza e magnificenza non fare cronaca ed è solo qui, in questo microcosmo di fascinazione che le cose, per fortuna, possono essere diverse dalla realtà. Da quella realtà che vediamo già tutti i giorni negli schermi delle nostre televisioni.