Inverno di Jon Fosse è uno di quei titoli che si fissano nella mente, per una innegabile efficacia di tipo eufonico, ma anche per il successo con cui è riuscito a bagnare il suo debutto in Italia nel 2004 (Premio Ubu all’allestimento di Walter Malosti, per la Migliore Novità Straniera). Vincenzo Manna inizia ad approcciarsi al testo di Fosse circa dieci anni più tardi, intrigato principalmente dalle possibilità che si nascondono tra le maglie ambigue della scrittura dell’autore norvegese. Il celebre “non-detto” che caratterizza tanta drammaturgia dal secondo Novecento in poi, è totalmente imperante in Fosse, il quale anche visivamente distribuisce con ricercata parsimonia le parole, come se si trattasse di versi poetici, in maniera simile alle pagine dei drammi di Thomas Bernhard, ma con una economia verbale ben lontana dalla vivacità stilistica dell’austriaco.
Dalla prospettiva del regista, questa caratteristica di vuoto diventa principalmente possibilità di “apertura”, nell’interpretare la lettura del testo e nell’amministrare il lavoro con gli attori. Le attrici, per essere corretti: Manna parte proprio dalla seduzione verso il segno dell’ambiguità, intesa in senso letterale, che viene concessa proprio da quella caratteristica di apertura del testo, ma che invece risulta depotenziata da un plot piuttosto consunto (lui rispettabile marito e padre di famiglia, forse inappagato da una routine che non conosce scuotimenti, lei giovane ed esuberante enteuneuse, resa cinica dalla sua condizione sociale, ma ancora in grado di slanci impercettibili ed incoffessabili).
Lo spazio immaginato da Fosse prevede l’abbinamento di due “non-luoghi” (un parco ed una stanza d’albergo), su cui frammentare dialoghi rispondenti a diverse sequenze temporali. Vincenzo Manna decide per la sottrazione, forse per dare una dimora più consona alla consistenza scarna delle battute: sullo spazio scenico completamente vuoto, Flaminia Cuzzoli si agita malferma senza peraltro mai disegnare la traiettoria di un movimento pieno ed Anna Paola Vellaccio mantiene solo a fatica la compostezza della sua posizione.
Questa per lo meno è la fotografia iniziale di un gioco di forze interno a questa “non-coppia” che vedrà virare dall’una donna all’altra la posizione dominante, mentre la staticità fisica dell’azione viene colmata dal viaggio interiore che porterà ognuna a vincere differenti strati di resistenza. Manna sembra tuttavia più intenzionato a carpire i tratti essenziali sepolti sul fondo della scrittura di Jon Fosse per trasporli sotto forma di segni teatrali osservabili, come in un’opera di traduzione tra linguaggi semiotici, distinti ma paralleli. Così, l’economicità verbale dell’autore norvegese si sostanzia nello spartito di un piano di regia minimale sotto ogni punto di vista.
La luce bianca irradia spietatamente la totalità del nudo palcoscenico, che come una casa vuota fa risuonare di solitudine e precarietà ogni fruscio e balbettio, ma il linguaggio illuminotecnico va ad inglobare ogni rumore di scena che possa fare da corredo alle parole ed alla loro misera insufficienza: è un esempio il rosso che avvolge di colpo la scena come spia di una intromissione tra i due personaggi, ma è anche un atto deliberato di soffocamento, ovvero una resa registica, tutta sensoriale di quel non-detto in cui il testo fa macerare le sue molecole drammatiche.
Qualcosa di simile avviene con la luce più tenue e delimitata che scende tra le singole scene come un notturno in cui avvengano mutazioni oniriche, contiguo con il mondo razionale ma alieno alla logica. Qui le due attrici vengono come liberate dalla prigione angusta della comunicazione verbale, riuscendo finalmente a confessare il peso di fardelli altrimenti inenarrabili; i corpi esanimi vengono ora sorretti, ora “plagiati” in pose indecenti, ad irridere – in un ulteriore atto di soffocamento – un dolore che non ha più diritto di piangere né di essere.
La tracklist musicale studiata da Manna tocca nell’arco stretto dei piccoli intermezzi le corde di una emotività sintetica, trattenuta ma melodica, proiettando sulla vicenda i colori di una post-modernità più sincera che perduta.
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“INVERNO”
con Anna Paola Vellaccio e Flaminia Cuzzoli
regia: Vincenzo Manna
Testo: Jon Fosse
traduzione Graziella Perin
progetto: Vincenzo Manna e Anna Paola Vellaccio
assistente alla regia Andrea Vellotti
disegno luci Javier Delle Monache
costumi e oggetti di scena Cassepipe Compagnia
produzione Florian Metateatro, in collaborazione con ATCL e RIC-Festival 2014