liberamente tratto dal racconto di Fedor Dostoevskij
adattamento e regia di César Brie
con Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni
uno spettacolo di Teatro Presente
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La Mite è uno spettacolo che non parla con le parole, nonostante ce ne siano davvero molte, ma con le sensazioni. Un uomo, proprietario di un monte dei pegni, viene rapito da un istinto di protezione e di salvezza nei confronti di una giovane ragazza in ristrettezze economiche e in balia di una famiglia che non la accoglie. Sposandola però non riesce, un po’ per scelta un po’ per sua indole, ad esprimere serenamente l’amore che prova per lei, creando man mano un’escalation d’incomprensione che porterà la ragazza a una tragica fine. Quello di Dostoevskij è un racconto a una sola voce, mentre la compagnia Teatro Presente decide di portare in scena con fortuna anche la figura femminile, interpretata con grazia da Clelia Cicero, attrice dall’espressività fresca, luminosa e cangiante. Un po’ “teatrosi” i toni di Daniele Cavone Felicioni, che probabilmente nascono anche dalla volontà di calarci nell’epoca del racconto. Un raccontare complesso, quello di quest’uomo disperato, che a livello emotivo trasmette tutto il nucleo del suo dramma e fa riflettere.
Il rapporto contrastato con il proprio lavoro, di cui si vergogna ripetutamente, e con il denaro. La necessità di guadagnare, ma allo stesso tempo un senso di schiavitù e di mediocrità che lo appesantisce, rendendo sbiadite finestre i suoi sogni per il futuro. L’incapacità di confrontarsi su questo con chi gli sta a fianco e in generale di creare con la figura femminile un terreno sincero di confronto pratico ed emotivo.
Una storia exemplum che arriva dal 1876 a parlare del nostro tempo, epoca in cui sono troppi i punti di distrazione; del difficile dialogo tra energie maschili e femminili; di resistenza all’amore: non quello sentimentale, ma la sostanza che di base ci compone e muove.
Nel raccontare complesso di quest’uomo, viva la sensazione umana di non riuscire a impugnare il senso profondo di ciò che ci accade, ad avere concreto sentore di quello che siamo nella nostra essenza e nelle nostre azioni, della vita che stiamo costruendo. Il senso d’impotenza che ci prende anche nel momento in cui lì siamo chiamati ad amare, senza riuscire a realizzarci nel senso più concreto, a rendere cioè reali le immagini che navigano dentro di noi.
Ecco uno spettacolo che rimane nell’animo, continuando a lavorare anche dopo il buio. Dimostrandosi, così, fedele al grande autore.