Martedì 25 gennaio, Teatro alla Scala
A. Webern | Sechs Stücke für Orchester op. 6
F. J. Haydn | Sinfonia n. 96 in re magg. “The Miracle”
F. Schubert | Sinfonia n. 8 in do magg. D 944 “Die Grosse”
Direttore | Zubin Mehta
Orchestra Filarmonica della Scala
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Il compendio della produzione viennese a cavallo di tre secoli ha visto cadere la scelta sui tre paladini: Haydn, per il Settecento, Schubert, per l’Ottocento, e, infine, Webern, per il Novecento.
Non quelli a cui si pensa abitualmente (dopotutto, quante possibili scelte ci sono!) ma quelli che forse lo stesso Mehta sentiva il bisogno di portare con sé a Milano.
Il concerto replicato per tre giornate, da lunedì 23 a mercoledì 25, faceva parte della stagione della Sinfonica, seppur con la peculiarità di essere eseguito dall’orchestra Filarmonica della Scala.
A dispetto del programma di sala, in cui i Sechs Stücke di A. Webern fungevano da apripista, il concerto ha avuto inizio sulla delicata struttura della Sinfonia n°96 di F. J. Haydn, detta “Il miracolo”.
Tralasciando la storia dietro al titolo, storicamente falsa ma pur sempre divertente per una lettura pomeridiana, il brano si presenta, così come altre delle cosiddette sinfonie londinesi, come un puro esercizio di stile del compositore austriaco, desideroso di espandere la propria attività concertistica oltremanica, dopo i successi in terra asburgica.
Mehta, dirigendo sempre a memoria, non ha messo nulla più di quanto scritto nella partitura, sottolineando, dove necessario le variazioni ritmiche.
Quasi un esercizio di riscaldamento, per lui e per l’orchestra.
Come, ad esempio, le variazioni dell’ Andante, esposte chiaramente ma lasciate semplicemente a stendere al sole, invece che indossate ed esibite.
I sei brevi brani orchestrali di Webern, che furono il brano d’apertura anche al concerto di debutto di Mehta nel 1962, necessitano, invece, di un’imponente organico. L’orchestra si è così aperta a fisarmonica, occupando l’intero palco.
Tutto ad uso di un vero e proprio esercito di timbri per l’esposizione di poche parole (sei brani da non più di dieci minuti totali), parole rarefatte, dilatate e in alcuni casi, solo accennate.
Fa ancora effetto vedere un brano moderno, oramai di repertorio, messo in programma come un brano sinfonico qualsiasi. L’effetto di straniamento, non solo timbrico o tonale, e di novità che doveva aver colpito il pubblico d’inizio secolo è ancora oggi percepibile e ha avuto, grazie alla precisa direzione del direttore, il merito di riportare a Milano un brano che mancava da una decina d’anni.
Un pubblico colto e raffinato come quello scaligero ha sicuramente, quasi a mezzo secolo dalla prima in Italia, iniziato ad abituarsi all’idea di avere certi brani in cartellone ma non ne ha ancora compreso i punti di forza, soprattutto nei silenzi, vera fonte di ristoro dopo le grandi masse sonore con dinamiche forti.
A conclusione della serata, la Sinfonia n. 8 di F. Schubert, forse l’unico rammarico della serata, fin lì di buon gusto.
Un grosso nodo è stata la scelta di disporre la sezione fiati attorno al podio.
Seppur sia una scelta stilistico-pratica già adottata in altre occasioni, in special modo per sinfonie concertanti, nella serata di ieri, ha creato tre problemi, ben distinti ma tutti ad essa riconducibili.
Per una maggiore coesione della sezione fiati nei momenti di protagonismo, si è sacrificata completamente la loro presenza nei tutti orchestrali, letteralmente coperti dalla massa degli archi.
Per un contatto più preciso con le prime parti, come flauto e fagotto, si è allontanato il primo violino, non solo dal direttore ma dal resto dell’orchestra, che ha perso, in più di un passaggio, il riferimento principale, perdendo così di precisione ritmica.
Infine, si sono lasciati completamente soli gli ottoni che, lontani file e file di archi, non potevano minimamente contare sugli agganci ritmici dei fiati (come sentirli dopotutto?), producendo quindi, alcune volte, delle entrate incerte.
Al contrario di Haydn d’inizio serata, poi, i tempi sono stati spiccatamente soggettivi, di ampio respiro, producendo uno Scherzo e Trio, più simile ad un andante che ad un allegro, come lo stesso minutaggio proposto, superiore all’ora, a dispetto dei canonici cinquanta, può dimostrare.
A fine serata rimane un grande tributo in applausi e ammirazione per un maestro che, a ottant’anni, di cui più di cinquanta di carriera, ha ancora voglia di sperimentare e di portare musica moderna nei suoi concerti.
Il maestro Zubin Mehta sarà prossimamente impegnato, sempre sul palco della Scala, nella direzione del Falstaff di Giuseppe Verdi con Ambrogio Maestri e la regia di Damiano Michieletto, a Febbraio, e nelle rappresentazioni di Serata Stravinskij (un dittico formato da Le sacre du Printemps e Petruška), nel medesimo periodo.