Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nl mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: NOVEMBRE 2016
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ROCK DOG
Genere: animazione
Regia: Ash Brannon
Cast: voci di J.K.Simmons, Luke Wilson, Eddie Izzard, Lewis Black, Kenan Thompson, Mae Whitmann, Jorge Garcia, Matt Dillon, Sam Elliott, Will Finn, Liza Richardson
Origine: Cina/Usa
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: quando meno te l’aspetti trovi una piccola grande sorpresa. È il bello del cinema ed è il caso di Rock Dog arrivato sugli schermi in punta di piedi e rivelatosi intelligente e godibilissimo non solo per gli spettatori più giovani, se non altro per le splendide canzoni di Foo Fighters, Beck e Radiohead (alcune elaborate in versione italiana da Giò Sada). Protagonisti sono un cane e un gatto. Il cane è Bodi, un cucciolo di mastino tibetano che vive sulle montagne del Nepal e che dovrebbe – secondo il padre – imparare a fare il guardiano di pecore, ma che ha in mente solo la musica. Il gatto è Angus Scattergood, una rockstar di grande successo da cui Bodi è talmente affascinato da decidere di abbandonare il villaggio per cercare d’incontrarlo. Se i più piccoli sono attratti dal cucciolo che suona la chitarra e dal gatto che si muove come Eric Clapton (imitazione che può essere rilevata dai genitori o dai nonni), ai meno giovani Rock Dog offre diverse riflessioni, prima fra tutte quella di non rinunciare mai a sognare e a credere di poter realizzare i propri sogni: sono la molla della vita e aiutano a superare le difficoltà e ad avere uno scopo e un fine per cui lottare. Un secondo valore che emerge è quello della musica, qualsiasi tipo di musica, e la sua importanza nella vita, indipendentemente da cultura, ruolo, razza o grado di civiltà: riguarda tutti gli esseri viventi. Ash Brannon ha tratto il film da una graphic novel – ambientata tra il Tibet e Pechino – scritta nel 2009 dalla rockstar cinese Zheng Jun: una piccola tessera in più per cercare di capire il mosaico pieno di contraddizioni che è oggi la Cina.
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SULLY
Genere: drammatico
Regia: Clint Eastwood
Cast: Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney, Autumn Reeser, Anna Gunn
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: Clint Eastwood è come il buon vino: migliora con gli anni. Con Sully sviluppa un tema già emerso nel suo American Sniper: come la società americana sia formidabile nel creare e celebrare eroi, ma poi non voglia – forse per quel dna che fino a oggi l’ha salvata dal rischio di dittature di qualsiasi tipo – porli in un Olimpo al di sopra e al di fuori delle regole che devono seguire tutti i cittadini. Il film sul pilota che il 15 gennaio 2009 salvò la vita a tutte le 155 persone (tra passeggeri e membri dell’equipaggio) che erano a bordo compiendo un audace ammaraggio d’emergenza sull’Hudson, tra i grattacieli di New York, è un inno all’intelligenza, al sangue freddo e alla rapidità decisionale non disgiunta da una grande capacità di analisi di un professionista preparato che comunque è e resta una persona normale. Sully (il capitano Chesley Sullenberger “Sully”) – come evidenzia nel finale il film – ha sempre declinato al plurale il miracolo avvenuto in quella fredda giornata di gennaio sulle acque gelide del fiume di New York coinvolgendo non solo il suo equipaggio (a cominciare dal co-pilota Jeff Skiles, nel film l’attore Aaron Eckhart), ma l’intera comunità che ha saputo mobilitare in soli 24 minuti oltre 1.200 membri delle squadre di primo intervento e 7 traghetti adibiti al trasporto pendolari. E questo è forse il vero miracolo (almeno per l’Italia). Eastwood ha evitato la tentazione in cui sarebbero caduti molti suoi colleghi di ampliare il dramma del volo che appena partito dall’aeroporto di La Guardia perde entrambi i motori all’altitudine di soli 2.800 piedi per l’impatto con uno stormo di uccelli, dedicando all’evento solo i 208 secondi della realtà. Una scelta che trasporta lo spettatore in quella cabina facendogli vivere (quasi fosse in diretta) il dramma del pilota di dover scegliere tra le opzioni possibili quella più sicura per la salvezza dei passeggeri e dell’equipaggio. La scelta di scandire gli eventi con i tempi reali ha logicamente limitato al massimo le riprese spettacolari come quelle dell’aereo che si abbassa sul fiume tra i grattacieli. Il vero interesse del regista era però il dopo, non tanto l’incoronazione da parte dei media e dell’opinione pubblica di Sully come eroe, ma la fase successiva in cui il pilota era stato sottoposto a una puntigliosa inchiesta da parte del National Transportation Safety Board – agenzia investigativa (indipendente dal Governo) che indaga traendo le relative conclusioni sugli incidenti che coinvolgono aerei, treni, navi, oleodotti e gasdotti allo scopo di verificare se siano stati messi a rischio la vita delle persone e l’interesse della comunità – inchiesta assurda per la mancanza di vittime, ma giustificata dalle conseguenze economiche. Per Sully sono stati mesi (l’inchiesta è durata fino al 4 maggio 2010) di calvario tra interrogatori, simulazioni dell’incidente e supposizioni che ponevano in dubbio correttezza e professionalità dell’anziano pilota (in quel gennaio 2009 aveva circa 20.000 ore di volo come pilota professionista, oltre a quelle maturate all’Accademia dell’Air Force e nei cinque anni di servizio sui jet da combattimento) e a rischio la prosecuzione della carriera. Eastwood è stato magistrale realizzando un film di grande spessore psicologico (in ciò perfettamente coadiuvato da un eccezionale Tom Hanks la cui interpretazione è da Oscar, di per sé motivo sufficiente per vedere il film) in cui emerge non solo il dramma di un uomo che sa di aver compiuto il suo dovere, ma anche il dubbio sull’aver compiuto l’unica scelta possibile e l’aver valutato tutte le possibili varianti e alternative. Con materiale sostanzialmente statico ha saputo creare un thriller hitchcockiano con un crescendo di tensione che richiama alla mente La parola ai giurati di Sidney Lumet. Il film pone poi in risalto un altro elemento quanto mai importante in quest’era in cui la tecnologia sembra essere ‘tutto’: di fronte all’evento non previsto o prevedibile l’intelligenza umana è ancora e sempre l’unica a poter elaborare una risposta.
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UN NATALE AL SUD
Genere: commedia
Regia: Federico Marsicano
Cast: Massimo Boldi, Biagio Izzo, Paolo Conticini, Enzo Salvi, Debora Villa, Barbara Tabita, Anna Tatangelo, Loredana De Nardis, Simone Paciello (Awed), Riccardo Dose, Giulia Penna, Ludovica Bizzaglia, Paola Caruso, Giuseppe Giacobazzi
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal1 dicembre 2016
Il film: la prima reazione nel vedere l’ultimo film imperniato sugli ammiccamenti e sulle mossette di Massimo Boldi è l’antico detto “non tutte le ciambelle riescono con il buco”. E Un Natale al Sud – che rientra nella storica categoria dei ‘cinepanettoni’ che quest’anno come non mai hanno occupato gli schermi fin dall’inizio di dicembre, anzi in qualche caso dalla fine di novembre – manca in larga misura l’obiettivo di far trascorrere un paio d’ore in modo divertente. Basato ancora una volta sui pseudo contrasti tra il milanese Boldi e il napoletano Izzo, parte da una premessa intrigante e non banale che purtroppo perde per strada. Peppino, carabiniere milanese e Ambrogio, fioraio napoletano (dovrebbe essere divertente l’inversione della tipicità regionale dei nomi?) con le relative consorti Bianca (Debora Villa) e Celeste (Barbara Tabita) stanno trascorrendo le vacanze natalizie nella stessa località di montagna e scoprono che i rispettivi figli si sono fidanzati via internet con due fanciulle, ma il loro è un amore virtuale non essendosi mai visti di persona. All’insaputa dei giovani organizzano un rendez-vous in un resort in Puglia, dove si recano anche loro per sorvegliare gli sviluppi. Fin qui il film regge, dopo si accontenta di una serie di banalità perdendo due ghiotte occasioni di satira di costume: sorprese e imprevisti dei rapporti affettivi sviluppatisi unicamente attraverso chat e il vuoto organizzato del divertimento obbligatorio di certi resort. Spiace sinceramente vedere due attori come Boldi e Izzo lottare con un testo che rivela la sua pochezza non appena escono di scena. I ruoli dei ragazzi sono affidati a star di Youtube: essere attori di cinema è un’altra cosa. Un Natale al Sud vede il debutto cinematografico di Anna Tatangelo: è molto bella.
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PEPPA PIG IN GIRO PER IL MONDO
Genere: animazione
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2016
In sala dal 3 dicembre 2016
Il film: un altro regalo per i più piccoli: dal piccolo schermo sbarca la simpaticissima Peppa Pig, (la maialina rosa più amata al mondo) con un maxi episodio inedito in cui gli amici di Peppa vanno in giro per il mondo durante le vacanze e Peppa li raggiunge compiendo un avventuroso viaggio durante il quale attraversa la giungla, scala montagne e arriva al Polo Sud. L’evento è arricchito da altri sette episodi (mai programmati dalla televisione italiana) che raccontano la vita quotidiana di Peppa con i suoi imprevisti che – come quelli di ogni essere umano – sono ora lieti ora ricchi di contrattempi. Peppa ovviamente li affronta con coraggio, come dovrebbe avvenire per tutti (bambini compresi). Risate assicurate. La serie di Peppa Pig è stata creata nel 2004 da Phil Davies (produzione e dialoghi), Mark Beker (disegni e storie) e Neville Astley (storie e animazione) ed è attualmente distribuita in 180 Paesi con grandissimo successo. La brevità degli episodi e la semplicità delle storie e del linguaggio ne fanno una serie particolarmente adatta ai bambini in età prescolare.
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ROBINÙ
Genere: documentario
Regia: Michele Santoro
Cast: Mariano, Michele ‘Michelino’
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 6 dicembre 2016
Il film: presentato con successo al Festival di Venezia 2016 (sezione non competitiva Cinema nel Giardino), l’intenso documentario firmato da Michele Santoro (con la collaborazione di Maddalena Oliva e Micaela Farrocco) pone il dito su una delle più dolorose piaghe della società italiana e napoletana in particolare: le ‘baby gang’ che armi alla mano si contendono il mercato della droga. Robinù (deformazione dialettale di Robin Hood) è la storia purtroppo vera di alcuni di quei ragazzini che a 15 anni imparano a sparare, a 20 sono killer esperti e difficilmente invecchiano e la cui concezione di vita è sintetizzata da questa tragica sintesi: “Tu queste cose le devi fare ora. Perché così se vai in galera per vent’anni esci e hai tutta la vita davanti”. Basandosi su veri volti di baby-boss della camorra e dei loro familiari, Santoro porta per la prima volta sugli schermi senza alcuna mediazione la storia di tanti ragazzini (il 15 giugno 2016, per esempio, il Tribunale di Napoli ha condannato oltre 40 imputati, per la maggior parte ragazzi) che nell’indifferenza delle Istituzioni non hanno adempiuto agli obblighi scolastici e a volte sanno esprimersi solo in dialetto, ma hanno imparato dalla ‘società normale’ di dover arrivare anche in modo spregiudicato al successo e alla ricchezza per ‘essere rispettati’, lezione che declinano applicando le leggi della camorra. Ancora una volta Santoro porta sullo schermo una realtà scomoda che – in un clima di ‘tutto va bene’ e di ‘ottimismo a ogni costo’ – molti, anche con responsabilità pubbliche, preferiscono non vedere o denunciare (tanto l’opinione pubblica è facilmente distratta dai gossip e non ricorda) e così nell’indifferenza si arriva ai 60 adolescenti morti a Napoli negli ultimi due anni (come indicato dal documentario) in quella che è stata definita “paranza dei bambini” e che insanguina da Forcella a Porta Capuana quest’antica culla di cultura e civiltà. Un fenomeno, troppo spesso considerato unicamente problema di ordine pubblico, che non può essere risolto solo – come ampiamente dimostrato dalla cronaca e dalla storia – dall’impegno encomiabile di Magistratura, Carabinieri e Polizia, ma che è prima di tutto sociale e di presenza dello Stato che dovrebbe creare nei giovani (e nelle loro famiglie) la speranza non teorica e vana di un lavoro in cui non si rischi la vita e di un futuro fuori dalla miseria. Michele Santoro con Robinù conferma ancora una volta di essere quel giornalista scomodo che negli anni ottanta scuote la sonnacchiosa Rai di allora (ma sempre largamente migliore dell’attuale) con mitiche trasmissioni come Samarcanda, che nel duemila con Sciuscià presenta in TV una serie di reportage (per la loro chiarezza scarsamente graditi da molti) narrati con linguaggio cinematografico, che realizza il primo docudramma italiano (Il caso Soffiantini), produce una serie di documentari (un esempio per tutti La mafia è bianca sulla sanità siciliana e le sue collusioni politiche) e docu-fiction di grande successo e impegno sociale, e che con Servizio Pubblico inventa un programma multipiattaforma (dalle tv anche locali allo streaming). Un interprete del vero giornalismo e un uomo che negli anni nonostante il successo è rimasto fedele ai suoi ideali, a volte pagando di persona come quando è stato costretto a lasciare la Rai in seguito al cosiddetto ‘editto bulgaro’ dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi (che si spera non trovi più giovani imitatori). Robinù proprio perché per i suoi contenuti può disturbare è un film da vedere per conoscere e riflettere sul fatto che un futuro migliore per ognuno di noi non si ottiene certamente nascondendo la testa nella sabbia.
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IL PIU’ GRANDE SOGNO
Genere: drammatico
Regia: Michele Vannucci
Cast: Mirko Frezza, Alessandro Borghi, Vittorio Viviani, Milena Mancini, Ivana Lolito, Ginevra De Carolis, Crystel Frezza
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: presentata alla 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti, l’opera d’esordio di Michele Vannucci (vincitrice anche del premio Solinas Experimenta) è stata una delle poche note liete della partecipazione italiana. Vannucci ha compiuto un piccolo miracolo nel realizzare un film di finzione da una storia vera che sembra una favola moderna, testimonianza che con la volontà qualsiasi sogno, anche il più incredibile, può essere reso reale. Mirko Frezza (interpretato dallo stesso protagonista della vicenda) è un trentanovenne disadattato romano appena uscito dal carcere e come tanti – anzi per i suoi trascorsi certamente non adamantini più di altri – senza prospettive su come mantenere se stesso e la sua famiglia, ma con la ferma determinazione di non ripetere gli errori del passato nonostante le tentazioni rese pericolose dal bisogno. Nella vita di Mirko avviene un miracolo: è eletto Presidente del Comitato di Quartiere della periferia in cui vive e – a differenza di tanti cacciatori di cariche politiche – interpreta la sua elezione non come onorificenza o in chiave strettamente personale (come purtroppo avviene troppo spesso), ma come servizio agli altri, agli abitanti di quella distesa di asfalto e cemento che disumanizza l’esistenza. Aiutato da Boccione (ottima per intensità la prova di Alessandro Borghi), il suo miglior amico, si propone di trasformare l’indifferenza degli abitanti del quartiere in solidarietà, virtù sempre più rara e desueta in quest’epoca dominata da indifferenza, egoismo e ricerca del successo (possibilmente facile). Vannucci mostra con Frezza un grande uomo, non un eroe ma un uomo comune come molti altri però con il coraggio di sognare una vita migliore non per sé soltanto e di voler realizzare il sogno nonostante indifferenza e incredulità. Il più grande sogno è un film potente che rivela in Vannucci una promessa per il nostro Cinema (ne attendiamo con impazienza il secondo film) ottimamente interpretato da tutti e in particolare – oltre ai già citati Frezza (il cui volto commovente e divertente resterà a lungo nella memoria) e Borghi – da Milena Mancini e Ivana Lolito. Il film, nelle sale dall’inizio di dicembre, è forse quello che più e meglio di tutti interpreta lo spirito del Natale.
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IL VINCENTE
Genere: drammatico
Regia: Luca Magri
Cast: Luca Magri, Maria Celeste Sellito, Nina Torresi, Michele Buttarelli, Marco Iannitello, Adriano Guareschi, Paolo Rossini, Giulia Bertinelli, Francesco Silva
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: interessante e promettente esordio di Luca Magri che ha ambientato a Parma (fotografata in uno splendido bianco e nero che con il gioco delle sfumature rende ancora più affascinante una delle più belle città italiane), Il Vincente è il racconto del disagio psicologico e sociale di molti ‘vitelloni’ di provincia. La loro vita oscilla fra il dolce fare niente scandito da soste al bar connotate da pettegolezzi e piccole maldicenze e velleitari sogni di un facile arricchimento, senza peraltro mai abbandonare l’ombrello protettivo del calore familiare e delle disponibilità paterne. In questa vita fatta di noia e di vuoto s’insinua il gioco d’azzardo, subdolo vettore di emozioni adrenaliniche e d’illusorie speranze di ricchezza. Al centro del film è Antonio (convincente l’interpretazione dello stesso Magri), un giovane scapolo benestante (molto amante della bella vita e del poker e molto poco del lavorare) che vive tranquillo la propria noia esistenziale – tipica di chi ha tutto o quasi senza fatica e non deve lottare quotidianamente (ingoiando anche molti rospi) per mantenere se stesso e la famiglia – ravvivata solo dall’adrenalina delle carte. Questo tranquillo tran-tran è psicologicamente interrotto da due eventi: il padre stanco di fare da bancomat e rimediare ai guai combinati dal figlio lo obbliga ad andare in terapia e a cercarsi un lavoro: ma quando non si ha vocazione sarebbe una vera sfortuna trovarne uno e Antonio è fortunato. Va dalla psicologa (una brava Nina Torresi), ma il gioco ormai gli obnubila talmente la mente con l’illusione della facile vincita da fargli cercare nuove avventure di gioco unendosi a un gruppo di balordi. Il secondo evento è la conoscenza di Dalia (un’ottima Maria Celeste Sellito), una stravagante gallerista con cui avvia una storia amorosa: potrebbe essere la salvezza dal gioco, invece… Dalia è molto curiosa di quello strano mondo che affascina il suo Antonio. Magri è molto bravo nel descrivere anche nei percorsi mentali il mondo dell’azzardo in tutte le sue sfumature. Ne Il Vincente ha costruito una storia su situazioni che, come ha dichiarato lui stesso, conosce molto bene: sarà interessante vederlo in futuro impegnato su altre tematiche. In questa sua opera prima dimostra che per realizzare un buon film non occorre avere grandi disponibilità: il numero delle copie stampate è però limitato, per cui la data d’uscita indicata è relativa a quando chi scrive ha visto il film.
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LA STOFFA DEI SOGNI
Genere: commedia
Regia: Gianfranco Cabiddu
Cast: Sergio Rubini, Ennio Fantastichini, Alba Gaïa Bellugi, Teresa Saponangelo, Francesco Di Leva, Ciro Petrone, Renato Carpentieri, Luca De Filippo, Nicola Di Pinto, Jacopo Cullin, Fiorenzo Mattu
Origine: Italia
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: La stoffa dei sogni è un piccolo gioiello d’intelligenza, raffinatissimo nella sua semplicità e linearità e con un cast che ne interpreta in modo straordinario la caratteristica principale: l’umanità. Umanità che accomuna il dolente Campese, capocomico di una sgangherata compagnia girovaga, il capo-camorra Don Vincenzo e il Direttore del carcere. Grazie o per colpa di una tempesta all’isola-carcere di Asinara approdano involontariamente uno sparuto gruppo di attori dalle qualità artistiche inversamente proporzionali alle ambizioni e all’amore per il Teatro, quattro camorristi destinati all’isola e le guardie che li scortano: i fili dei loro destini s’intrecciano con quelli dei ‘prigionieri’ dell’isola siano questi detenuti, carcerieri o poliziotti formando una ‘stoffa’ in cui ciascuno diviene un po’ più ricco. La stoffa del titolo è anche quella che nasce dai fili della Tempesta di Shakespeare e della sua bellissima traduzione in napoletano del Seicento realizzata da Eduardo e L’arte della Commedia sempre di Eduardo e si traduce in un’opera che fa riflettere chi cerca una lettura meno immediata sul ruolo dell’arte e della creatività per affrontare e superare i momenti di difficoltà come accade a Campese (tra le migliori interpretazioni di Sergio Rubini, qui solo attore, che sfoggia un’umanissima maschera eduardiana). Il Capocomico, infatti, per evitare ritorsioni da parte dei camorristi deve aggregarli alla Compagnia facendo credere al direttore del carcere (un misurato Ennio Fantastichini) che siano attori. Il direttore lo crede, ma non troppo e per accertare la verità e distinguere gli attori dagli impostori ordina a Campese che si vantava di grandi interpretazioni shakespeariane di mettere in scena La Tempesta. Dopo un tragico avvio delle prove con i camorristi alle prese con i versi del Bardo ecco il lampo di genio: l’eduardiana versione in napoletano che da quanto è possibile ascoltare nel film compete per bellezza con il testo originario e forse ne acquista l’umanità partenopea. Superato per gli attori camorristi lo scoglio di capire le parole che pronunciano, le prove continuano sotto l’occhio vigile del Direttore. Siccome però gli occhi sono solo due non si accorge che Miranda (ottima Gaïa Bellugi) sua figlia, novella Nausica, intreccia una storia con un giovane naufrago, apparentemente smemorato… La stoffa dei sogni è un film italiano di cui si può andare orgogliosi, una rarità nell’odierno panorama del nostro cinema per la sua raffinatezza e l’intelligenza culturale (tenuta sottotraccia e mai sbandierata) che si traduce in cammei indimenticabili come l’Antioco selvaggio e dolente di Fiorenzo Mattu, versione locale dello shakespeariano Calibano, quasi simbolo nella sua diversità rispetto agli altri esseri umani di quella dell’isola strappata alla sua naturale vocazione per essere trasformata in un carcere.
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LA MIA VITA DA ZUCCHINA
Genere: animazione
Regia: Claude Barras
Cast: voci di Lorenzo d’Agata (Zucchina), Lucrezia Roma (Camille), Riccardo Suarez (Simon), Stefano Mondini (Raymond), Gabriele Meoni (Ahmed), Luca Tesei (Jujube)
Origine: Francia/Svizzera
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: sempre più spesso il film d’animazione è fonte di gradite sorprese: La mia vita da Zucchina è una di queste. È un film gentile ma non lezioso, avvincente e dal ritmo umano, un capolavoro che coinvolge lo spettatore e ha il merito di non sottovalutare l’intelligenza dei più piccoli parlando loro del mondo in cui viviamo e delle difficoltà che si incontrano, un mondo che non è una fiaba. È un film che riesce a rendere palpabile l’infelicità dei bambini con un racconto quieto fatto di silenzi e di piccole rivelazioni. L’animazione è spesso frutto di tecnologie quasi avveniristiche che creano a volte prodigiose rassomiglianze con i modelli umani, e sempre più spesso affianca ai tradizionali prodotti per l’infanzia opere che si rivolgono a un pubblico adulto. Il film del regista svizzero Claude Barras adotta la tecnica ‘stop-motion’ simile a quella dell’animazione tradizionale in cui però i disegni sono sostituiti da pupazzi e filmati ‘fotogramma per fotogramma’. Tra una ripresa e l’altra i pupazzi sono riposizionati per creare l’idea del movimento, in realtà dovuta alla qualità dell’animazione e alla bravura degli animatori. Un lavoro improbo e lunghissimo: basti pensare che per il film di Barras in ogni giornata di lavoro sono stati realizzati quattro secondi di film (la durata è 66 minuti). Ogni pupazzo è stato prodotto artigianalmente utilizzando materiali diversi per le singole parti ed è alto trenta cm. per cui tutto il film è ripreso dal punto di vista dei grandi occhi (visualizzazione della curiosità e della voglia di apprendere) di questi bambini-pupazzo. La mia vita da zucchina è la storia di Icaro, un bambino di nove anni che rimasto drammaticamente orfano di una madre alcolizzata e violenta viene inserito in una casa-famiglia, piccolo spaccato del mondo odierno: vi sono, infatti, il bulletto che è tale per coprire la propria fragilità (Simon che si rivela positivo e dal grande cuore), la bimba autistica, la piccola profuga, il bambino ciccione e Camille, la piccola ereditiera bramata da una zia cattiva e interessata. Icaro stenta a inserirsi anche perché si ostina a farsi chiamare Zucchina (il nomignolo con cui lo chiamava la mamma). Si tratta di un’infanzia maltrattata e indifesa, ma che scopre nella tolleranza e nella solidarietà che deriva dall’amicizia la forza di affrontare e superare le difficoltà della vita. Alle spalle del film oltre a un grande artigianato e alle notevoli capacità del regista vi sono un importante libro per l’infanzia (Autobiographie d’une courgette scritto nel 2001 da Gilles Paris ed edito in Italia da Piemme) e la sceneggiatura di Céline Sciamma (la giovane regista francese di cui sono stati ammirati gli interessanti Tomboy e Diamante nero) che sa mixare con equilibrio dramma e commedia e l’ha scritta non pensando a un film d’animazione per bambini, ma a una delle sue opere in cui esamina il disagio giovanile. La mia vita da zucchina esprime come pochi altri film la necessità e la capacità di reagire alle avversità e di volgere le esperienze negative in positivo traendone quegli aspetti (pochi o molti) che siano tali e che sempre esistono. Ed è per questa sua visione di speranza oltre che per le sue intrinseche qualità tecniche e di regia che il film oltre al grande successo presso il pubblico francese (da ottobre oltre mezzo milione di spettatori) e a quello del Festival di Cannes (in cui ha partecipato alla Quinzaine des Réalisateurs) ha vinto al Festival di Annecy (il più importante per l’animazione) il Premio per il miglior film e il Premio del pubblico, premio quest’ultimo conseguito anche al Festival di San Sebastian e a quello di Melbourne.
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AMORE E INGANNI
Genere: commedia
Regia: Whit Stillman
Cast: Kate Beckinsale, Chloë Sevigny, Xavier Samuel, Morfydd Clark, Emma Greenwell, Tom Bennett, James Fleet, Jemma Redgrave, Justin Edwards, Jenn Murray
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2016
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: cambiano i secoli, l’abbigliamento, i costumi… ma l’animo umano nei suoi tratti essenziali resta immutato e così un film tratto dal romanzo epistolare Lady Susan scritto negli ultimi anni del Settecento dalla giovanissima Jane Austen (la prima opera della grande scrittrice inglese) appare di un’attualità sconcertante, al di là degli atteggiamenti e delle situazioni chiaramente legate a quell’epoca storica e a quell’ambiente. Inghilterra 1790: la bellissima e affascinante Lady Susan Vernon (una bravissima Kate Beckinsale che interpreta con grande aderenza femminilità, astuzia e intelligenza del personaggio descritto dalla circa ventenne Austen che sembra si sia ispirata alla francese Eliza de Feuillide, moglie di suo fratello Henry) rimasta da poco vedova e ‘in bolletta’ cerca marito per sé e per la figlia (ragazza schiva, da poco in età da marito e interessata più allo studio che alla mondanità). Il matrimonio inoltre porrebbe Lady Susan al riparo dai problemi economici e dal sottile vento del pettegolezzo (proprio delle società dedite soprattutto alla malevola osservazione degli altri) prima che diventi un ciclone. Il regista americano Stillman è indubbiamente rimasto affascinato dall’epoca e dal romanzo della Austen (pubblicato in Italia nel recente volume Lady Susan e le altre. Romanzi e racconti epistolari, edito nel 2015 da Elliot) tanto da effettuare un’operazione senza precedenti: scrivere un doppio adattamento filmico e letterario, entrambi intitolati Amore e inganni (l’opera letteraria è pubblicata in Italia da Beat Edizioni). Stillman predilige personaggi brillanti e situazioni romantiche e articolate per cui nelle vicende di lady Susan ha trovato materia a lui congeniale e la esprime con la consueta bravura (Metropolitan e The Last Days of Disco per citare due tra le sue opere migliori), arricchita stavolta da un tono ammiccante e divertito. Amore e inganni è una commedia al femminile divertente e godibile anche per l’ottima prova di tutto il cast da Morfydd Clark (la figlia Federica) a Chloë Sevigny (l’amica confidente e complice), senza dimenticare gli splendidi abiti e ambienti che fanno rivivere l’atmosfera di un’epoca piena di ‘bellezza’ (ovviamente per chi faceva parte dei privilegiati).
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FREE STATE OF JONES
Genere: storico-epico
Regia: Gary Ross
Cast: Matthew McConaughey, Gugu Mbatha-Raw, Keri Russell, Mahershala Alì, Sean Bridgers, Brad Carter, Carlfon Caudle, Martin Bats Bradford, Brian Lee Franklin
Origine: Usa
An no: 2016,
In sala dal 1 dicembre 2016
Il film: sulla Guerra di Secessione americana (aprile 1861 – aprile 1865) esistono centinaia di film, quasi tutti trattano però singoli episodi o vicende che di storico hanno solo la cornice. Della guerra e delle sue cause almeno in Italia si conosce poco, salvo il grande affresco etico di un Nord altruista che combatte per la libertà di milioni di schiavi contro un Sud di inumani proprietari terrieri. Uno schema simile a quello della maggior parte dei film western in cui i ‘buoni’ bianchi lottano contro i ‘cattivi’ pellerossa per costruire un grande Paese. Free State of Jones racconta un episodio piccolo, ma vero della storia americana, episodio (forse ininfluente nell’immediato) che ha comunque rappresentato un forte segno di discontinuità e l’affermazione di un principio di eguaglianza e di giustizia nel cuore di uno degli Stati maggiormente aggrappati alla segregazione razziale. Il film inizia nel 1863 e la Guerra Civile infuria su uno dei molti fronti (sparsi a pelle di leopardo) tipici di questo tipo di conflitto. Le vicende si svolgono nel Mississippi (secondo Stato a formalizzare la secessione dall’Unione) e iniziano con flash di uno scontro in cui Newton “Newt” Knight (da premio l’interpretazione di Matthew McConaugheiy nel renderne la tranquilla determinazione e la forza trascinatrice che ne fanno un leader coraggioso, ma prudente e sempre in prima linea), barelliere nell’esercito confederale, si affanna a portare i soldati feriti negli ospedali da campo, dove però i medici curano prima gli ufficiali e poi, se restano tempo e medicinali, i soldati semplici. Una scena breve e incisiva che mostra il taglio etico che il regista Ross (studioso di storia e politica americana) dà al film. Newt Knight (1837-1922) è un piccolo proprietario che coltiva in Mississippi pochi ettari di terra con la moglie Serena (brava Keri Russell nel renderne incertezze, paure e contraddizioni) e non ha schiavi. Non è interessato alle tesi né dei Confederali, né degli Unionisti, ma si è arruolato volontario nell’esercito confederale per restare vicino ai parenti e ai vicini, contadini come lui. La svolta avviene quando il giovane nipote gli muore tra le braccia dovendo i medici curare gli ufficiali. Decide di riportarlo a casa e diviene automaticamente un disertore. Tornato nella sua fattoria scopre che i soldati confederali non si limitano a prelevare il 10% del raccolto come contributo previsto per il sostentamento dell’esercito, ma con l’approvazione degli alti gradi razziano tutto. Si fa strada in Knight la consapevolezza che in realtà i poveri stanno combattendo una guerra (come in quasi tutte le guerre) per gli interessi dei ricchi, in questo caso proprietari terrieri i quali si erano anche creati la legge che esentava dell’andare a combattere i figli di chi possedeva almeno 20 schiavi. In effetti la Guerra di Secessione – come giustamente rileva Stefano Massini in un passaggio di Lehman Triology è lo scontro tra due modelli di sviluppo: quello agrario-latifondista basato su una manodopera numerosissima e a costo quasi zero e quello industriale che concepiva come motore dell’economia e dello sviluppo la nascente industria pesante strettamente connessa con le nuove reti di collegamento, anche questa basata sullo sfruttamento dell’uomo che però era formalmente libero e cui erano riconosciuti alcuni diritti politici. Accanto al capitolo bellico Free State of Jones ha il merito di parlarci del cosiddetto ‘periodo della Ricostruzione’ che sviluppatosi in diverse fasi ha annacquato di molto i risultati della guerra e allo spettatore italiano ricorda il principio base del Gattopardo. Il momento cruciale – come risulta dal film – è stata la riconsegna delle terre agli antichi proprietari i quali avendo perso qualche pelo, ma non il vizio si affrettarono a creare nuove forme di dominio sugli ex-schiavi e sui lavoratori poveri attraverso mezzadria e apprendistato (Knight riscatta con il denaro il figlio formalmente libero di Moses). Naturalmente il diritto di voto per i cittadini di colore era rimasto sulla carta (splendido per incisività questo segmento del film) tanto da costringere il Congresso a inviare Governatori militari per far rispettare le leggi, decisione che determinò la nascita di associazioni paramilitari e terroristiche come il Ku Klux Klan la cui nefasta presenza esiste tuttora. Sono molti gli argomenti di quest’opera di Ross che mostrano come le idee dei Confederali siano sopravvissute al 1865 come rivelano i flash sull’incredibile processo intentato nel 1948 dallo Stato del Mississippi contro Davis Knight – pronipote di Newt e discendente dal matrimonio di questi con l’ex schiava Rachel (intensa e misurata l’interpretazione di Gugu Mbatha-Raw) – perché accusato di aver sposato una donna bianca violando la legge locale che vietava questo tipo di matrimoni. Un film da non perdere e che fa meditare come negli Stati Uniti la lotta per il riconoscimento dei propri diritti non sia finita per la popolazione di colore con il 1865, come molte problematiche siano ancora attuali e che la Presidenza Obama è solo un passo (speriamo non una parentesi) di un lungo cammino.