(mai) scritto da Antonio Rezza
produzione: Compagnia Rezza Mastrella – Teatri 91 – FondazioneTPE
regia: Flavia Mastrella e Antonio Rezza
interpreti: Antonio Rezza, Ivan Bellavista
habitat: Flavia Mastrella
assistente alla creazione: Massimo Camilli
disegno luci: Maria Pastore
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Il vero protagonista dello spettacolo “7 14 21 28” di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, è lo spazio. Uno spazio che costruisce il tempo e che diventa preponderante rispetto a quest’ultimo; uno spazio che è parte integrante della narrazione, quasi come se fosse un elemento, una materia presente sul palco. Antonio Rezza, come un abile tessitore, unisce tutti gli ingranaggi che, in questo spazio, trovano collocazione creando mondi onirici, trasfigurando la realtà, estraendola dalle sue inquietudini, paure angosce per trasformarla in una performance che diventa una specie di rito sciamanico di guarigione dalle ferite della società attraverso l’arte.
Il performer, con tutto il suo corpo, con la fatica e il sudore riesce a trasformare la disperazione umana in un gioco divertente, di pura astrazione e disfacimento totale della narrazione, dove lo spazio non è più abitato da esseri umani ma da numeri. Il corpo vivo e agile di Rezza mette in scena l’incorporeo, l’intangibile, l’effimero: un gioco di alterazione, attraverso le pedine dell’incongruo, dell’aberrante, dell’illogico che, paradossalmente, riconsegnano alla realtà tutta la sua tragica evidenza.
L’Habitat dentro il quale si muove Rezza è, come sempre, pensato e ideato da Flavia Mastrella: al centro un’altalena ai cui lati partono drappi, corde, tele, lacci, e altri elementi scenici posizionati sul palco per formare un grande ideogramma che rappresenta, come la stessa Mastrella ha affermato, “le trappole di un ordine precostituito” che devono essere demolite. E qui torna il rito: attraverso un atto performativo si vuole eludere la contingenza del reale e mettere in atto una pratica liberatoria.
A prendere corpo nello spazio sono degli archetipi che, attraverso dei flashback narrativi, vengono rappresentati dall’attore. Rezza presta il suo corpo alla bizzarra e stravagante messa in scena dei prototipi contro i quali intende scagliarsi: la religione con le sue costrizioni e i suoi dogmi; il potere molto spesso discriminante; l’informazione e la stampa anch’essa asservita al potere; la famiglia come nucleo di sofferenze, più che di felicità; il lavoro precario che sfinisce e rende disumano; un certo teatro di narrazione che ingabbia l’attore in ruoli precostituiti. Queste riflessioni sono frutto di informazioni che vengono acquisite inconsciamente, perché durante lo spettacolo non vi è nessun intento di denuncia sociale esplicito. Sono solo flash, frammenti di vita, disconnessi e senza alcun filo logico che li lega, se non il corpo dell’artista aiutato dagli input della Mastrella, che non sono solo ornamenti ma un linguaggio scenico ben preciso che devia e forma i comportamenti dell’attore.
E alla fine si arriva all’astrattezza maggiore, quella in cui le persone diventano numeri e ogni filo logico evapora in favore del disfacimento totale della narrazione. Lo spazio è connotato attraverso i numeri. Le persone sono connotate attraverso i numeri. Le relazioni vengono connotate attraverso i numeri. E, alla fine, dopo aver tanto riso ed essersi tanto divertiti, ci rendiamo conto, una volt usciti, di essere diventati anche noi, per gran parte della nostra vita, dei puri e semplici numeri, che talvolta ci identificano molto più di altre caratteristiche. Pensiamo al numero di telefono, al numero di conto, al numero di matricola, al codice Pin e ci si rende conto che tutti, oramai, ci siamo rassegnati a essere solo un numero.