Cesuo (Cessi pubblici) è una pièce veramente ben recitata da un gruppo ben coeso di giovani ed è comunque di per sé intrigante e di notevole interesse e importanza essendo la prima opera teatrale cinese rappresentata in Europa grazie all’interesse e alla volontà entusiasta di Sergio Basso – sinologo appassionato ed esperto, nonché regista teatrale e cinematografico autore anche del documentario Giallo a Milano e di altri trasmessi dalla TV cinese di Stato – che ne ha curato la prima traduzione in lingua italiana (per i tipi di CuePress). Basso – che da una ventina d’anni vive anche in Cina per cui è un personaggio in medias res con un’ottima conoscenza degli aspetti esistenziali di una popolazione varia dal punto di vista delle lingue sinitiche e unita dalla comune dimestichezza con il cinese mandarino standard, lingua oggi tra le più diffuse in questa grande e variegatissima terra – coadiuvato da Lucia Messina ne ha curato anche la regia.
Tutto ciò risulta in modo più che evidente dal simpatico e vivace incontro condotto da Sergio Basso con Guo Shixing – sessantacinquenne drammaturgo pechinese con una carriera di giornalista (critico teatrale dal 1980 al 1993) lasciata perché non gli sembrava di potere dire tutto ciò che voleva (e qui in Italia…) affermatosi negli anni ’90 grazie a una trilogia composta da Yu ren, Niao ren e Qi ren (Uomini-pesce, Uomini-uccello e Uomini-scacco) e volta ad analizzare passatempi tipici, quotidiani e un po’ maniacali dei Pechinesi: la passione per un modo di pescare diverso dal nostro, per l’allevamento degli uccelli soprattutto nei parchi e per il gioco degli scacchi – autore di Cessi pubblici (testo ispiratogli dall’avere visto a Pechino una mostra sulla storia delle latrine a livello mondiale: chissà quanti visitatori apprezzerebbero in Italia una simile esposizione apparentemente di basso livello, ma in verità di altissima utilità per comprendere l’evoluzione della società) sul quale ha risposto con simpatica e partecipe calma alle domande di un pubblico desideroso di capire e sapere.
In effetti come si sa poco delle abitudini del Portogallo o della Spagna o della Bulgaria, quasi nulla si conosce degli abitanti dell’Est europeo e a maggior ragione dei Cinesi per cui desiderare essere più edotti non corrisponde a una smania di esotismo, ma piuttosto a una maggiore e consapevole conoscenza dei diversi modi in cui si è disvelata l’intelligenza umana adattandosi ai differenti ambienti, salvo poi scoprire che in epoche remote e a latitudini diverse e non conosciute l’uomo ha messo in atto meccanismi tali per cui a distanza di chilometri sono nate soluzioni analoghe.
Prescindendo dai più complessi aspetti antropologici, resta il fatto che in Occidente pochi sanno che a Pechino fino a una trentina di anni fa le case non avevano gabinetti – per usare un termine che sembra essere meno di basso registro rispetto alla parola ‘cessi’ in verità presente nei documenti ufficiali del passato – e le persone dovevano ricorrere a quelli pubblici in cui ciascuno espletava i propri bisogni di fronte agli altri senza remora alcuna proprio come succedeva nell’antica Roma, fatto che non si è perpetuato in Occidente non solo per un vistoso e graduale degrado dell’igiene, ma anche per uno svilupparsi del senso di vergogna delle proprie parti intime mediato dal Cristianesimo.
Presa coscienza di queste diverse abitudini, si può quindi capire come tali luoghi a Pechino siano stati forti e importanti spazi di socializzazione e che quindi in una trentina di anni dalla rivoluzione culturale al Gran Decollo Economico – emblematizzati in Cessi pubblici da tre giorni: uno nel 1975, l’altro nel 1985 e l’ultimo nel 1995 – si siano manifestati cambiamenti epocali tali da perdere le caratteristiche del passato e da assumere aspetti standard a livello globale.
Ne risulta un quadro variegato e molteplice di personaggi (nella versione teatrale italiana ridotto quanto a numero) come la madre del nuovo custode, donna completamente succube delle abitudini tradizionali, e il figlio voglioso di innovazione così come gli altri frequentatori (in genere del quartiere) che si lanciano con diversi esiti in questa folle e vertiginosa corsa verso il nuovo: una crescita economica dagli infiniti aspetti che ha determinato accentuati disagi psicologici e disparità, senza fare procedere di pari passo la cura delle necessità spirituali.
Non si tratta forse di un fenomeno che in momenti e modi diversi ha toccato e tocca tutto il globo?
Certo che a Pechino passare da latrine condivise (nelle abitazioni esistevano solo i vasi da notte che il mattino successivo si andava a svuotare, affrontando naturalmente lunghe code, nei cessi pubblici) a quelle individuali, oggi spesso di lusso, rappresenta un bel salto di abitudini anche se tale cambiamento non si è verificato dappertutto.
Si comprende dunque come il regista abbia scelto di astrarre entro certi limiti il testo dalla società cinese per dargli una lettura più accessibile al mondo occidentale e in particolare a quello italiano il quale non è detto che non avrebbe apprezzato e cercato di comprendere anche una versione che raccontasse in modo più letterale la società di Pechino negli anni in cui è descritta.
Resta forte e di notevole pregnanza una domanda: “il progresso aiuta o distrugge l’uomo”?
Agli spettatori l’ardua risposta.