Don Carlo fu una delle opere più complesse e travagliate di Giuseppe Verdi: commissionata nel 1865 dall’Opéra di Parigi, andò in scena nel 1867 e fu rimaneggiata dallo stesso maestro diverse volte negli anni successivi, con tagli e aggiunte per le successive rappresentazioni italiane.
Musicalmente, come dichiarato dallo stesso Verdi, l’opera rappresenta un variegato mosaico, dove apparentemente non esiste un filo conduttore, ma piuttosto un insieme di tessere che, pur nella loro diversità, si uniscono a completamento di una creazione realmente monumentale, non solo nella lunghezza, ma anche e soprattutto nella sua complessità.
Il teatro di Parigi, infatti, chiese al compositore di Busseto una Grand-Opéra, genere molto in voga nella capitale francese in quegli anni, dove potessero essere presentate grandiose scene corali e complessi intrecci tra coro, cantanti, orchestra e scenografia.
Verdi, però, aggiunse al fasto francese quella che era la sua cifra stilistica più riconoscibile: l’indagine profonda della psicologia dei personaggi e dei loro sentimenti, magistralmente tradotti in musica. Così, la vicenda si muove su due binari differenti: quello politico, dove il contrasto tra monarchia e potere temporale della chiesa viene rappresentato dall’imperatore, dal grande inquisitore e dalle richieste di libertà per le Fiandre di Rodrigo; e quello umano, dove l’amore impossibile tra Don Carlo ed Elisabetta diventa fulcro della tragedia.
Dall’allestimento importato dal Salzburger Festspiele, però, tutto questo non emerge compiutamente e, nonostante le indubbie doti del maestro Chung sul podio e dei cantanti sul palco, la recita si appiattisce sulle scene fino a diventare stantia.
Se un’idea doveva essere alla base di questa produzione del 2013 firmata da Peter Stein, in tutta onestà, non siamo riusciti a coglierla, così come non abbiamo colto nulla di così geniale da giustificare un imbruttimento forzosamente modernistico come quello imposto delle scene di Ferdinand Wogerbauer.
La foresta di Fontainbleau come un non-luogo, uno spazio metafisico bianco e asettico, così come il chiostro del convento di San Giusto, che somiglia più al cortile di un carcere, e le stanze private di Filippo II che si trasformano in una cucina piastrellata e disadorna, nell’insieme emergono come una sorta di quadro neo-realista metafisico che ben poco si addice al libretto e allo spartito.
I costumi di Anna Maria Heinreich vorrebbero essere (ci è sembrato di intuire) una rivisitazione modernistica della moda dell’epoca in cui si svolge la vicenda, ma la netta predominanza del nero e del grigio, usati evidentemente per aderire meglio alla scenografia, ancora una volta creano una dissonanza stridente.
Insomma, la “grandeur” francese di quest’opera viene a mancare, lasciando il posto a incomprensibili scene e scelte registiche, che nulla aggiungono ma molto sottraggono allo spettacolo nel suo insieme, sminuendolo fino a renderlo leziosamente piatto.
Fortunatamente, a risollevare le sorti di questo Don Carlo imbruttito, un cast davvero coeso per bravura e oggettive capacità vocali e un direttore che, anche se ci è apparso meno in forma del solito, resta uno dei migliori interpreti sulla scena mondiale.
Andiamo con ordine. Myung-Whun Chung ha un’incredibile capacità di far aderire la musica alla drammaturgia, esaltando con i chiaroscuri della bacchetta i diversi momenti del libretto, usando una sensibilità raffinata nell’equilibrio delle sezioni e dell’insieme con i cantanti. In questa occasione, però, ci è sembrato che il tutto non fosse sempre così perfettamente sotto controllo.
Francesco Meli, nel ruolo di Don Carlo, passa con agilità dai registri acuti a quelli gravi, mantenendo sempre immutate morbidezza e potenza, con un timbro godibile, e un canto espressivo, senza sbavature. Bravò!
Particolarmente riuscito il duetto tra don Carlo e Rodrigo all’inizio del secondo atto.
Simone Piazzola, nel ruolo di Rodrigo, Marchese di Posa, possiede un timbro altrettanto piacevole e sfoggia una tessitura morbida e ricca di colori, una voce potente ma perfettamente modulata per rendere tutte le sfumature.
Ekaterina Semenchuk, nel ruolo della Principessa d’Eboli, fatica nei passaggi più difficili e nei registri più bassi, e perde morbidezza in quelli più acuti. Nel complesso però offre una buona prova, anche se resta la più deludente su questo palco.
Krassimira Stoyanova, nel ruolo di Elisabetta, canta con colore e passione, mettendo empatia nella recitazione e dipingendo chiaroscuri sottili in tutti i registri. Pecca però in potenza vocale e viene a volte sovrastata da don Carlo. Qualche problema con i fiati nei passaggi più difficili, ma nel complesso ci restituisce una Regina davvero apprezzabile.
Bravi anche Ferruccio Furlanetto, nel ruolo di Filippo II, Theresa Zisser nel ruolo di Tebaldo, Azer Zada e tutti gli altri interpreti.
Non ci ha entusiasmato Eric Halfvarson, per via di un’esagerazione quasi ridicola della gestualità del nonageriano Grande Inquisitore.
Anche il coro, diretto da Bruno Casoni, non ci è sembrato al massimo delle sue potenzialità come in altre recenti occasioni.
A fine recita applausi sentiti ma non entusiastici, considerando anche qualche defezione in platea e sui palchi, comprensibile vista la durata dello spettacolo proposto in questa occasione nella versione integrale con 5 atti.
La recensione si riferisce alla recita di mercoledì 1 febbraio 2017.
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Don Carlo
Dramma lirico in cinque atti di Giuseppe Verdi
Edizione integrale della versione in 5 atti a cura di U. Günther e L. Petazzoni; Editore Casa Ricordi, Milano.
Libretto: François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Traduzione italiana: Achille De Lauzières e Angelo Zanardini
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Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione del Festival di Salisburgo
Direttore: Myung-Whun Chung
Regia: Peter Stein
Scene: Ferdinand Woegerbauer
Costumi: Anna Maria Heinreich
Luci: Joachim Barth
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CAST
Elisabetta di Valois: Krassimira Stoyanova
La principessa Eboli: Ekaterina Semenchuk
Don Carlo: Francesco Meli
Rodrigo: Simone Piazzola
Filippo II: Ferruccio Furlanetto
Il Grande Inquisitore: Eric Halfvarson
Un frate: Martin Summer
Voce dal cielo: Céline Mellon
Sei deputati fiamminghi: Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim, Victor Sporyshev, Chen Lingjie, Paolo Ingrasciotta.
Conte di Lerma/Un araldo reale: Azer Zada
Tebaldo: Theresa Zisser