Uno spettacolo non si racconta. Nessun precetto, per carità. È solo la presa d’atto di una condizione impossibile, talmente vera e rigorosa che – se si vuole – la si può fissare e tramandare come fosse una regola. Il teatro di Roberto Latini non solo non può esimersi da questa regola, ma sembra quasi che muova proprio a partire da essa.
Prendiamo ad esempio “I Giganti della Montagna – Radio Edit”, spettacolo a cui Latini approda per stadi e studi graduali, replicando per certi versi l’incedere stratificato con cui Pirandello compose il suo ultimo testo e ne costruì la messinscena, fermandosi prima di poter completare l’opera.
Il palcoscenico che si intravede e che si lascia spiare dalla platea nei minuti che precedono lo spettacolo mostra i connotati di un laboratorio dormiente, pronto ad accendersi ed a riempire il vuoto rigoroso di cui si ammanta. Al centro, nella penombra si staglia lo scheletro formato dalle aste di tre microfoni convergenti, coperti da un quadrato di tessuto morbido, come le punte di ferri chirurgici. Questo puro altrove inizia finalmente a colorarsi di connotati collocabili, pur rimanendo volutamente altro: il verso acre di uno stormo di corvi irrompe, dislocandoci al di fuori delle nostre coordinate spazio-temporali, in un oltre archetipico e silvestre. Ma il richiamo è troppo breve e troppo criptico perché i nostri sensi riescano ad elaborarne un’immagine chiara e riconoscibile.
L’attore entra in scena, prende rapidamente possesso della sua postazione sonora. Il velo viene rimosso, la scena si attiva quasi rianimata dalla sostanza del respiro. Non è un semplice modo di dire: prima di affiorare alle forme del significato, la voce di Latini danza nelle stanze del sospiro e della parola isolata, reiterata, rimandando quanto più possibile il passo che varca la linea del confine con il flusso della frase compiuta. Come un graffio, l’ingresso del suono sintetico azzera i nostri processi di localizzazione appena imbastiti, mentre la parola si dischiude definitivamente e si espande nello spazio semi-buio. È questo che avviene nell’attacco elettrizzante dello spettacolo, mentre il ritmo martellante trascina e seduce: non è solo un incipit drammaturgico, ma un vero e proprio rito di nascita che ha per oggetto la parola, venato di grido e di spinte violente proprio come un parto.
Con quest’ultima versione del suo “Radio-Edit”, Latini approda ad un risultato che travalica il piano estetico della ricerca sulla voce o sulla phoné, per donare ogni evidenza ed ogni protagonismo alla parola. L’impaginazione scenica dei diversi momenti dello spettacolo altro non è che la scansione in capitoli di questo programma e persino la presenza fisica dell’attore è lì per dare corpo alla parola anziché trarne vantaggio (accentrando ogni sguardo o assommando su di sé tutti gli assoli distribuiti nel testo). L’ormai celebre solitudine monologante di Roberto Latini appare in questo lavoro la chiave che libera le parole di Pirandello da un ultimo incasellamento: quello che le riferisce ai singoli personaggi, relativizzandole in forma di opinioni individuali, repliche, reazioni o semplici sonorità di accompagnamento alle azioni.
Accade così che proprio un testo parziale, strappato anzi tempo alla sua definizione come “I Giganti della Montagna” mostri tutta la sua pienezza sotto la lente della nuova prospettiva fornita da Latini. Annullate le dinamiche dialogiche, scardinate le convenzioni drammatiche, la parola pirandelliana acquisisce la potenza di un poema sapienziale che conduce forse a massima resa il portato espressivo di questo testo già “finale” in sé, tanto da non aver bisogno di una conclusione strutturale.
Nella sensorialità dello spettacolo, questa operazione incontra effetti tangibili: senza il tramite di personaggi che patiscano o che si illuminino, il riverbero emozionale delle parole tocca da vicino l’individualità dello spettatore, il quale riguadagna un ruolo attivo senza bisogno di straniamenti o smantellamenti d’illusione. È l’universalità il canale che Latini intercetta per raggiungere l’intimità del pubblico, riuscendo a muovere le sue corde con tocchi spesso trattenuti ma non per questo meno intensi. La fisicità prepotente del performer tende paradossalmente a nascondersi o a ritrarsi, prima contenuta a lungo dietro i contorni del controluce, poi esposta in una recitazione rarefatta, connotata da passi incerti, gesti accennati, pose fragili. Dismessa l’armatura degli strumenti amplificanti, riverberanti e distorcenti, la scena libera non viene colonizzata dalla presenza dell’attore, mantenendo fede al disegno di uno spettacolo che si materializza attraverso una intelaiatura di vuoti e di pieni.
Latini scompare e riappare, pur restando sempre in scena: il suo volto si copre di maschere “magrittiane” o di garze tascabili, il suo sguardo -iniettato di luce arcana per effetto di lenti ottiche fluorescenti- si apre con centellinata rarità alla visibilità dello spettatore, la sua presenza raggiunge il proscenio solo tardivamente, dopo essere rifuggita quasi brancolando verso fondali spogli.
Poi svanisce definitivamente, ultima essenza dei fantasmi pirandelliani, sciamanica e solenne.
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“I Giganti della Montagna – Radio Edit”
con Roberto Latini
Adattamento e Regia: Roberto Latini
Musiche e suoni: Gianluca Misiti
Luci: Max Mugnai
Produzione: Fortebraccio Teatro
Collaborazione: Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti, Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione, con il contributo di Mibact e Regione Emilia Romagna
Florian Metateatro, Stagione 2016-17 “Teatro d’autore ed altri linguaggi”/ “Assolononsolo”