Falstaff, l’ultima opera di Verdi: un’opera buffa che contiene tutta l’amarezza della vecchiaia e – come dichiarato più volte dallo stesso maestro – la consapevolezza di lasciare all’umanità il suo ultimo lavoro.
Un’opera così diversa da tutte le altre del compositore, che in questo spartito si diverte a scherzare con l’orchestra, ad auto-citarsi, ma anche a guardare ai suoi predecessori e alla grande tradizione musicale italiana, lasciando una sorta di “memento” per i suoi successori.
In questo senso, potremmo dire, l’allestimento messo in piedi dal duo Michieletto/Fantin, che già abbiamo avuto modo di vedere all’opera con altri “stravolgimenti”, funziona. Ma, come tutti gli “stravolgimenti” ad un certo punto finisce per scontrarsi inevitabilmente con il libretto.
Damiano Michieletto ambienta il “suo” Falstaff all’interno della casa di riposo per musicisti Verdi, che lo stesso maestro definì “la mia opera più importante”, riprodotta alla perfezione sul palco della Scala da Paolo Fantin.
Un cantante attempato sogna di esibirsi per l’ultima volta in uno spazio onirico che diventa allo stesso tempo il ricovero per anziani e il palco del teatro, dove la scena vuole essere reale e la ribalta un confine labile tra rappresentazione e realtà.
In questo senso l’iperbole di Michieletto funziona: Falstaff diventa personificazione dello stesso Verdi e, con quel misto di malinconia e ironia, affronta le vicende immaginate da Shakespeare con il piglio del personaggio originale, ma con la stanchezza di una vecchiaia corpulenta, che lo porta spesso ad essere dormiente su di un divano.
Insomma, un lezioso esercizio che – pur risultando interessante, intelligente e ben congegnato – smette il suo fascino nel momento in cui si scontra con le contraddizioni che si potrebbero forse appianare del tutto soltanto modificando il libretto.
Sul palco/ospizio assistiamo dunque ad una serie di movimenti dei personaggi (ben congegnati senza dubbio), che per lo più entrano ed escono dalla scena attraverso le finestre, oltre a qualche trovata visivamente piacevole, come l’enorme panno che prende il posto della cesta del bucato e le piante di Kentia in vaso, che prendono il posto della foresta.
Il resto è un nuovo che sa di vecchio, come le banconote che scendono dal soffitto (la Traviata di Carsen) e i coriandoli blu nei secchi di latta (una cosa mai vista).
Il grande assente sulla scena è proprio il libretto di Arrigo Boito, perché, nonostante questo esercizio di stile registico faccia clamore e divida i melomani in guelfi e ghibellini, vi sono delle notevoli ed inevitabili discrepanze tra le parole scritte sul libretto che ci viene consegnato all’ingresso e quello che osserviamo sul palco.
Discrepanze che, durante i tre atti, si fanno notare in modo evidente. La scena diventa spesso statica, ingabbiata tra le pareti di un salone, e i personaggi non sempre riescono a recuperare a pieno il senso della loro presenza all’interno del sogno del protagonista.
A questo si aggiunge la bacchetta di un grande maestro, che però in questo caso sembrava quasi fuori posto, almeno quanto il protagonista nei lunghi minuti in cui il regista l’ha costretto sul palco rannicchiato su un sofà.
Quella di Zubin Mehta è infatti una concertazione squisitamente “classica”: puntuale, ben calibrata ed incredibilmente raffinata ma, proprio per questo, difficilmente apprezzabile se contrapposta ad un allestimento di questo tipo, che avrebbe avuto bisogno di maggiori slanci, per compensare l’appiattimento di quello che è diventato in sostanza un atto unico senza cambi scena.
Nonostante tutto, comunque, questo Falstaff va visto.
Se vi aspettate di vedere una produzione classica resterete ovviamente delusi. Ma se avete una mente aperta e volete assistere ad un intelligente esperimento (pur non del tutto riuscito), non potete perderlo assolutamente.
Un altro motivo per andare a vedere questa produzione è il cast, variegato ma ben equilibrato, che nonostante qualche pecca è risultato affiatato e perfettamente all’altezza della (difficile) situazione.
Ambrogio Maestri, dopo aver interpretato il ruolo di Falstaff in più di 200 recite è semplicemente perfetto, anche in questa veste di anziano sognante. Gli concediamo volentieri qualche piccola sbavatura nel cantato, per apprezzarne l’interpretazione sentita, l’ironia e l’amarezza, i momenti di esuberanza e quelli di temporanea sconfitta e scoramento, resi al pubblico nelle più piccole sfumature psicologiche con vera maestria.
Massimo Cavalletti è un Ford travestito da Fontana in sedia a rotelle che riesce comunque ad essere divertente ed ironico. Nonostante qualche difficoltà espressiva nei registri più gravi, dove perde morbidezza, la sua è stata una performance assolutamente godibile.
Francesco Demuro nel ruolo di Fenton, ha un bel timbro, espressivo e colorito in tutte le sfumature.
Giulia Semenzato, nel ruolo di Nannetta, pecca in potenza vocale, ma ha un bel timbro, una voce morbida sempre perfettamente modulata ed espressiva. Una vera sorpresa. Bravò!
La Quikly di Yvonne Naef ha qualche difficoltà nei registri più gravi ma nel complesso è convincente, anche nella veste di “cameriera sexy” che il regista le fa indossare.
Forse le più deludenti sono la Alice di Carmen Giannattasio, che non convince del tutto dal punto di vista vocale a causa di qualche difficoltà coi fiati e di una mancanza di morbidezza soprattutto nei registri più acuti, ma compensa con un’interpretazione sensuale e giocosa nei momenti in cui il libretto lo richiede; e la Meg Page di Annalisa Stroppa, che spicca meno rispetto ai colleghi sul palco.
A fine recita applausi convinti per tutti, in particolare per Ambrogio Maestri.
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 10 febbraio 2017.
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Falstaff
Commedia lirica in tre atti
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Arrigo Boito
(Editore Casa Ricordi, Milano)
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Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Produzione del Festival di Salisburgo
Direttore: Zubin Mehta
Regia: Damiano Michieletto
Scene: Paolo Fantin
Costumi: Carla Teti
Luci: Alessandro Carletti
Video: Roland Horvath
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CAST
Falstaff: Ambrogio Maestri
Ford: Massimo Cavalletti
Fenton: Francesco Demuro
Dr. Cajus: Carlo Bosi
Bardolfo: Francesco Castoro
Pistola: Gabriele Sagona
Mrs Alice Ford: Carmen Giannattasio
Mrs Quickly:Yvonne Naef
Nannetta: Giulia Semenzato
Meg Page: Annalisa Stroppa