Comincia come uno show da cabaret l’avventura scritta a sei mani dalla compagnia Teatro Pirata. Una sequela di scambi sagaci che si fanno capire dai ragazzi e apprezzare da genitori e adulti, giocati sulla distanza che corre tra “io” e “tu”, come se, dal punto di vista degli interpreti, sul palcoscenico non ci fosse abbastanza spazio per un’identità diversa dalla propria.
Fino ad accorgersi che il vero protagonista della pièce è un terzo personaggio, a cui il diritto di avere un’identità è perfino negato. Per due motivi: anzitutto, è un pupo, una marionetta semplice senza fili né bastoni, manovrata direttamente a mano; in secondo luogo, il suo nome è Robinson Crusoe e porta con sé il fardello del suo corrispondente letterario. È nella dimensione del viaggio per mare, archetipo della libertà, che il nostro scopre le pene della solitudine.
Nelle intenzioni della compagnia, il riferimento al romanzo dell’inizio del 18° secolo non è mai puntuale, ribaltando le mire moralistiche di Crusoe in una disperata ricerca di libertà che poi si risolve nella definizione del proprio essere. In questo senso, la rappresentazione è una polemica aperta al tempo in cui colonialismo e schiavismo erano ritenuti aspetti normali e necessari di una società occidentale che aveva il dovere morale di elargire la propria superiorità culturale a chiunque “altro”.
L’altro, l’indigeno, il Venerdì del romanzo che appare sul palco molto tardi: gli attori Silvano Fiordelmondo e Francesco Mattioni si confrontano tra loro accampando pretese di protagonismo, ma il vero straniero/estraneo al loro mondo è quel Robinson disperso su un’isola deserta che, essendo solo un pupo, non può fare a meno di loro per vivere e sopravvivere.
Nello spettacolo il riferimento al romanzo di Daniel Defoe è sempre presente, in senso apertamente provocatorio: il misero destino di Crusoe, re e tiranno di un regno privo di sudditi sino alla comparsa di Venerdì, viene tradotto e trasformato nel destino di chi non può fare a meno di riconoscere la limitazione della propria libertà personale nelle libertà altrui.
Da una parte la si può considerare una attualizzazione del tema ai giorni nostri (in ottica politicamente corretta, gli attori dibattono animatamente sul palco a proposito della corretta definizione di Venerdì, preferendo “cameriere” o “collaboratore domestico” a “schiavo”); in senso meno superficiale, è la rappresentazione della parabola teatrale per cui una società, per quanto piccola, si regge sulla collaborazione tra i suoi componenti, attori sul palco o naufraghi sull’isola che siano.
Ma le virtù di uno spettacolo magistralmente diretto e musicato da Simone Guerro, di grande impatto visivo anche per merito della scenografia di Frediano Brandetti di volta in volta smontata e rimontata dagli interpreti per ambientare le sventure di Robinson, sembrano perdere la loro efficacia comunicativa in corso d’opera.
Probabilmente, il solo neo di una produzione altrimenti impeccabile sta nel voler parlare del destino dalla prospettiva di un personaggio che non ha potuto sfuggirgli, oltretutto rappresentato da un pupo che spesso si vede rubare la scena dagli attori.
L’impressione generale è che il riferimento a Robison Crusoe, il testo e la regia dello spettacolo, perfino il ricorso ai pupazzi siano finalizzati a un percorso di conoscenza di sé, per arrivare a distinguere nettamente “io” e “tu”, palco e platea. In definitiva, per stabilire che non c’è teatrino, non c’è teatro e non c’è società che possano esimersi dal confronto con l’altro.
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Robinson Crusoe, l’Avventura
di Simone Guerro, Silvano Fiordelmondo e Francesco Mattioni
Con Silvano Fiordelmondo e Francesco Mattioni
Scenografia Frediano Brandetti
Regia e Musica Simone Guerro